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278 parte terza


tendeva l’italiano bastantemente, dà segno di uniformarsi di buon animo al consiglio del poeta italiano: in una parola, si pon fine alla conversazione con usarci garbatezze ed atti d’amicizia scambievolmente, partendo il signor Duni ed io contentissimi, l’uno e l’altro. Mi sono trovato nel tempo di mia vita a stare a fronte di alcuni, che avevano buone o cattive ragioni per fuggirmi; ogni qualvolta però mi è riuscito di guadagnar la stima d’un uomo mal disposto a mio riguardo, ho sempre riguardato un tal giorno, come un trionfo per me.

Nell’escire dalla casa del signor Diderot mi congedai dall’amico Duni, e passai subito ad una letteraria adunanza, della quale ero socio, e dove appunto dovevo in quel giorno stare a pranzo. Questa società non era molto numerosa; infatti non eravamo che nove cioè il signor de la Place, che allora faceva il Mercurio di Francia, il signor de la Garde, che lavorava egli pure in quell’opera per quello che concerneva la parte degli spettacoli, il signor Louis, segretario perpetuo dell’Accademia reale di chirurgia, il signor abate de la Porte, autore di parecchie opere letterarie, il signor Crebillon figlio, e finalmente i signori Favart e Jouen. Quest’ultimo non figurava molto per coltura, ma primeggiava per la squisitezza della sua tavola. Ogni membro della società riceveva a vicenda in casa propria i suoi confratelli, e dava loro da pranzo; e siccome tali sedute succedevano sempre in domenica, si chiamavano le Domenicali, e noi perciò i Domenicali. Non avevamo altri statuti che quelli della buona e civile società: a tale effetto eravi la convenzione di non ammetter donne nell’adunanze, essendo a noi troppo noto il potere delle loro attrattive, e temendo noi le dilettevoli distrazioni delle quali è causa il bel sesso. Un giorno si teneva la Domenicale nel palazzo della marchesa di Pompadour, della quale era segretario il signor de la Garde. Quando appunto eravamo per andare a tavola, entra nel cortile una carrozza; vedesi dentro una signora, e si riconosce per un’attrice dell’Opera, la più stimabile per il suo ingegno, la più ragguardevole per la sua vivacità, e la più amabile in conversazione. Scendono subito due de’ nostri confratelli, le danno di braccio, ed ella sale, e ridendo e scherzando, domanda di pranzare. Era mai possibile negarle posto? Le avrebbe ognuno certamente ceduto il proprio, ed io non sarei stato degli ultimi. Una signorina di tal sorte era fatta per piacere e per incantare: durante il pranzo, chiede di essere ammessa nella nostra società, ed epiloga in modo sì nuovo e sì elegante la sua domanda, che ell’è bentosto ammessa con acclamazione generale. Alle frutta, si guarda per caso l’orologio, e si vede che sono quattr’ore e mezzo: per buona sorte la nostra novella socia non aveva parte quel giorno sul teatro, voleva bensì andare all’Opera, e quasi tutti i confratelli erano disposti a seguirla. Io solo non dimostrava la medesima disposizione. — Ah ah! signor Italiano (dissemi allora sorridendo la nostra bella), voi adunque non siete portato per la musica francese? — A dire il vero non son per anche stato all’Opera. Ma si canta per tutto, e per tutto sento dell’ariette, che fanno venir male. — Com’è così (ella soggiunse), vediamo se mi riuscisse di guadagnare sull’animo vostro qualche cosa in favore della nostra musica. Incomincia a cantare, e mi sento rapito, penetrato, estatico. Che voce incantatrice! non forte, ma giusta, espressiva, deliziosa! ero fuori di me. Terminato il suo canto — Venite (ella mi disse), datemi il braccio, e venite con noi all’Opera, — Le do il braccio, e vado all’Opera,