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LA DONNA DI GARBO | 439 |
Arlecchino. Senza tanti strepiti. Tolì la vostra scuffia, che mi son bello anca senza de quella. (si leva la cuffia, e la pone sopra un tavolino, o sopra una sedia)
Rosaura. Eccomi, signora padrona. Mi perdoni se prima non sono venuta, poichè quell’anticaglia tediosa del suo signor suocero mi ha trattenuta sinora. (Arlecchino fa scherzi a Rosaura, che gli corrisponde1)
Beatrice. Va via di qua impertinente, (ad Arlecchino che fa lazzi)
Rosaura. (Vanne, caro, e poi torna quando sarò sola, che ti ho da parlare), (piano ad Arlecchino che parte) (Anche costui può giovarmi). (da sè)
Beatrice. Colui è insoffribile2.
Rosaura. Eppure qualche volta è grazioso. A me piacciono gli uomini disinvolti.
Beatrice. Ancor io amo le persone spiritose, ma colui è uno sciocco.
Rosaura. Credetemi, signora padrona, che per noi altre donne accomodano molto meglio codesti sempliciotti che gli uomini accorti, e per diverse ragioni. Coi semplici possiamo fare a nostro modo, anzi possiamo fare ch’essi facciano a modo nostro. Non ardiscono di rimproverarci le nostre gale, le nostre mode. Se si grida, sono sempre i primi a tacere; hanno soggezione e timore di noi, e quello che più importa, si può facilmente dar loro ad intendere lucciole per lanterne; ma cogli accorti bisogna stare avvertite, nè si può loro far credere che un viglietto amoroso sia la lista della lavanderia.
Beatrice. Tu l'intendi assai bene, ed io sono contentissima che la sorte m’abbia provveduta d’un marito della più fina semplicità.
Rosaura. Approfittatevene, e fate valere la superiorità del vostro spirito.
Beatrice. Dammi quella cuffia.
Rosaura. E volete ricever visite con quella cuffia?
Beatrice. Se Arlecchino non l’ha sciupata, e perchè no?