Pagina:Goldoni - Opere complete, Venezia 1908, II.djvu/460

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450 ATTO SECONDO

Lelio. Servitor divotissimo.

Pantalone. Patron mio reverito.

Lelio. Se si contenta, avrei da dirle due parole.

Pantalone. La se comoda pur.

Lelio. Sappia, signore, ch’io son un galantuomo.

Pantalone. Cussì credo. (Ma a la ciera no par). (da sè)

Lelio. E mi dispiace avergli a fare un brutto complimento.

Pantalone. Come sarave a dir?

Lelio. Conosce ella il signor Marchese di Ripaverde?

Pantalone. Lo cognosso.

Lelio. Ha ella avuto niente con lui?

Pantalone. (Ho inteso; so che ora che xe). (da sè) Ghe xe sta qualcossa.

Lelio. Ora, per dirgliela in confidenza, d’ordine suo io devo bastonarla.

Pantalone. La diga, no la poderave mo sparagnar sta fadiga; e più tosto chiappar un per de filippeti, e andar a bon viazo?

Lelio. Oh questo poi no; son un uomo d’onore. Ho promesso, voglio mantener la parola; ma senta, io non intendo di volerle romper l’ossa. Quattro sole bastonate; Vossignoria caschi in terra, ed io me ne vado.

Pantalone. No sarà mai vero, che voggia soffrir sto affronto.

Lelio. Ma chi è ella, in grazia? Qualche gran signore?

Pantalone. Son Pantalon dei Bisognosi.

Lelio. (Oh diavolo! Mio padre!) (da sè)

Pantalone. Son cognossuo in sta città.

Lelio. (Maledetto destino!) (da sè)

Pantalone. Afronti no me ne xe sta mai fatti.

Lelio. (Mi scopro, o no mi scopro?) (da sè)

Pantalone. E fin che gh’averò fiao, me defenderò. (mette mano allo stocco)

Lelio. (Se mi scopro, dirà che son un figlio di garbo). (da sè)

Pantalone. (Me par che el gh’abbia paura). (da sè) Via, sior cagadonao, andè via de qua. (minacciandolo)