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546 | ATTO PRIMO |
Rosaura. Ve lo giuro, che sono miei.
Ottavio. Oh che bella cosa!
Oh cara! Andiamo avanti.
Rosaura. Strale, che in sen non cape, esca e trabocchi.
Ottavio. Fa una cosa, tornami a leggere tutto il sonetto intero. Lo voglio sentire senza interrompimento.
Rosaura. Farò come volete. Io non ho altro gusto, che leggere i miei sonetti.
Ottavio. Questo è il frutto delle fatiche di noi poeti. Leggere le nostre composizioni, e sentirci dir bravi.
Rosaura. Eccovi un’altra volta il sonetto.
Al cuor duro non passa, e noi penetra;
Se per umide stille ei non si spetra,
E Amore invan tempri suo dardo, e scocchi.
Strale, che in sen non cape, esca e trabocchi
Dalle timide labbra, e sia faretra,
Che di lui passi l’aspro sen di pietra,
E la piaga s’interni, e il suo cuor tocchi.
Timor, vergogna, o verginal rossore,
Fia che m’arresti fra le labbra i detti,
E la fiamma nel sen respinga e chiuda?
Ah, non fia ver che lo permetta Amore;
Amore i casti ed onorati affetti
A trista legge non condanna, e cruda.
Ottavio. Figlia mia, tu hai composto un sonetto, che vale un tesoro.
Rosaura. Mi dispiace che converrà lacerarlo.
Ottavio. Come! Perchè lacerarlo?
Rosaura. Perchè è un sonetto amoroso.
Ottavio. Un sonetto di questa sorta si può comportare.
Rosaura. Ho da farlo sentire?
Ottavio. Certamente. Questo ti può far grande onore.