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LA FINTA AMMALATA 485

Beatrice. Signora Rosaura, mi date licenza che parli io per voi?

Rosaura. Sì, parlate voi; io non ho coraggio di farlo.

Beatrice. Quand’è così, signori dottori, signori eccellentissimi, stracciate le vostre ricette. Rosaura non ha altro male che quello che ha detto il dottor Onesti. Un’amorosa passione l’opprime, la tormenta, l’affligge. Via, signora Rosaura, fatevi animo, e confermate a vostro padre una tal verità.

Rosaura. Oh Dio! sono forzata a dirlo; mi conviene superare il rossore, per liberarmi non solo dal male che mi tormenta, ma dai medici che mi vanno perseguitando. Amo, sì, amo il dottor Onesti. Vederlo, amarlo e non ardir di spiegarmi, formava tutto il mio male. Che dite voi altri di polso, di crisi, di parossismi? Uno inventa, l’altro seconda. Voi che pretendete di fare col vostro sangue? Signor padre, ho scoperto il mio male, ecco il mio rimedio; avete promesso di non negarmelo. Se mi amate, se la mia salute vi preme, attendetemi la promessa.

Lelio. (Ho inteso; getto via le gocciole d’Inghilterra). (da sè)

Agapito. Che cosa ha detto? (a Tarquinio)

Tarquinio. Son confuso.

Agapito. Che?

Tarquinio. Eh, non mi seccate.

Pantalone. Cossa sèntio? Sior dottor Onesti, mia fia xe innamorada de elo?

Onesti. Se questo è vero, persuadetevi che io non ne ho colpa veruna.

Pantalone. No pol esser, l’avere lusingada.

Onesti. Signora Rosaura, parlate voi per la mia riputazione.

Rosaura. Giuro che mai gliel’ho detto, nè mai gl’ho dato indizi, dai quali immaginarselo egli potesse.

Beatrice. Io me ne sono accorta. Oggi l’ho confidato al dottor Onesti, ed egli per fare un’azione da suo pari, non voleva venire mai più.

Onesti. Ecco la ragione, per cui mi son fatto pregare a venir ora a vederla.

Pantalone. (L’è un omo savio e prudente). (da sè)