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Pagina:Goldoni - Opere complete, Venezia 1909, VI.djvu/277

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L'AVVENTURIERE ONORATO 265


teatrale, avvezzo a macchinar sulle scene, abbia l’abilità di guadagnarsi l’animo di chi l’ascolta. Io son nell’impegno, e ci va del mio decoro medesimo, se non fo constare quanto ho allegato intomo alle di lui imposture. Glielo dico in faccia, e non ho soggezione. Se a me l’E. V. non crede, ecco chi più di me lo conosce: venite, signor Conte, venite, signor Marchese. Questi due cavalieri vi parleranno di lui. (al Vicerè)

SCENA XVIII.

Il Marchese d’Osimo, il Conte di Brano e detti.

Guglielmo. Eccellenza, io sto cheto per rispetto di lei.

Vicerè. Conte, voi vi riscaldate soverchiamente; e voi, conte di Brano, che avete a dirmi contro di questo giovane?

Conte di Brano. Dico, Eccellenza, che da lui riconosco la vita. Sopraffatto da una eccessiva collera, fui da esso avvisato che mi sovrastava la morte. Mi suggerì il rimedio, corsi alla spezierìa e fui costretto a cadere. Presi il rimedio da lui suggeritomi, e sono quasi rimesso. Egli in Gaeta ha fatto il medico: l’ho creduto un impostore; ma ora dico esser uomo di garbo, il quale, oltre le altre virtù, ha quella di esser un perfetto fisonomista.

Conte Portici. Un accidente non lo può autenticare per un uomo di vaglia.

Conte di Brano. E non abbiamo prova in contrario per crederlo un impostore.

Guglielmo. (Eppure è la verità. La paura l’ha fatto quasi crepare). (da sè)

Vicerè. E voi, signor Marchese, che dite di questo forestiere?

Marchese. Sono disgustato con lui; l’ho pregato di venire in mia casa, e non è venuto.

Guglielmo. Il luogo dove ella mi trova, mi giustifica bastantemente.

Marchese. Sappiate, signor Guglielmo, (con permissione di S. E.)