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Pagina:Goldoni - Opere complete, Venezia 1910, IX.djvu/320

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306 ATTO PRIMO

Florindo. E in questa maniera sussiste la nostra compagnia; altrimenti, o questa si saria disfatta, o si sarebbe alcun di noi rovinato. Dama. (giocando)

Lelio. Un’altra cosa bellissima contribuisce alla nostra sussistenza.

Florindo. Sì, quella di non voler ammetter le donne.

Lelio. Ed esse hanno di ciò il maggior veleno del mondo.

Florindo. Quello che più loro dà pena...

Leandro. Soffio la dama.

Florindo. Perchè?

Leandro. Perchè non avete mangiato questa.

Florindo. È vero. Avete ragione. Solamente per aver nominate le donne, ho perso il giuoco.

Lelio. Se venissero qui, ci farebbero perder la testa.

Florindo. Spero ancora di rimettere la partita. (giocando)

Lelio. Fatelo discorrere, che mi date piacere. Altrimenti non posso vincere.

Florindo. Parlate, parlate, non mi confondo. (a Lelio)

Lelio. Che cosa dicevate voi che patiscono più di tutto le nostre donne?

Florindo. Quel che più le tormenta, è la curiosità che hanno di sapere quello che noi facciamo in queste nostre camere.

Lelio. Sì, è vero. Eleonora mia moglie tutto dì mi tormenta su questo punto, e per quanto le dica non si fa niente, non lo vuol credere.

Florindo. Lo stesso accade a me colla signora Rosaura, che deve esser mia sposa: non mi lascia aver bene. La soffro perchè l’amo, ma vi assicuro che mi tormenta.

Lelio. Io, che sono poco paziente, ho dato più volte nelle furie con mia moglie, e ho paura, se seguita, di far peggio.

Leandro. Dama. Una gran cosa con queste donne! Vogliono saper tutto.

Florindo. È vero, fanno perdere la pazienza. Bisogna essere innamorato, come sono io, per soffrirle.

Ottavio. Amici, sento un proposito che mi tocca, e non posso far a meno d’entrarvi. (alzandosi dal suo posto)