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LE DONNE CURIOSE 313

Beatrice. Non dubitate.

Rosaura. Per me non vi è pericolo.

Eleonora. Sono stata questa mattina a ritrovare la sarta, per vedere se mi aveva finito quel mio vestito verde... M’intendete quale ch’io voglio dire.

Beatrice. Sì, sì, quello che avete fatto di nascosto di vostro marito.

Eleonora. Signora sì; la Caterina me lo aveva guastato, e così mia comare dice: Signora comare, dice, che peccato che vi abbiano rovinato quel bel vestito! Fatevele accomodare. Insegnatemi una buona sarta, dico. Signora sì, dice, andate dalla tale, e così m’ho fatto insegnare dove sta di casa.

Beatrice. E siete andata stamattina, e avete saputo del lapis philosophorum.

Eleonora. Aspettate. Non mi confondete. Ho mandato a chiamar questa brava sarta. È venuta. Le ho fatto vedere il vestito, me l’ha provato, e si è posta le mani nei capelli quando l’ha veduta rovinato in quella maniera. Sì davvero!

Beatrice. Ma quando veniamo alla conclusione?

Eleonora. Subito. Lasci fare a me, dice, signora Eleonora, che glielo farò che le andrà dipinto. Ha preso il vestito, e l’ha portato via. Indovinate? Sono quindici giorni ora, e non me lo ha ancora portato. Queste sarte sono fatte così: promettono, promettono, e non mantengono mai. Mi fanno una rabbia terribile!

Beatrice. Ma via, veniamo al fine. Levatemi questa curiosità.

Eleonora. Quando mi ricordo della sarta, mi vengono i sudori.

Rosaura. Non discorrete più della sarta; venite alla sostanza del fatto.

Eleonora. Sì; ora vi dirò come ho saputo del lapis. Questa sarta sta di casa... vicino... Conoscete quella donna che vende il latte? Quella che suo marito faceva il caciaiuolo?

Beatrice. Via, sì, sì, andiamo avanti.

Eleonora. Oh bene. La sarta sta tre porte più in là, verso la strada, prima di arrivare al fornaio.

Rosaura. In verità, signora Eleonora, voi mi fate venir male.

Eleonora. Ma le cose bisogna dirle per ordine. Sappiate dunque...