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IL CONTRATTEMPO 427

Ottavio. Caffè. (sedendo)

Caffettiere. Eccola servita. (gli porta il caffè) Se vuol divertirsi, gli darò una bella composizione.

Ottavio. Lasciate vedere. (prende il sonetto, e legge) Sonetto di Leandro Zucconi. Sì, sì, di quell’asino di Leandro: ne ho veduti degli altri. (legge piano)

Leandro. Avete sentito? (a Florindo)

Florindo. Vi vuol prudenza. (a Leandro) (Meglio è ch’io parta). (da se, parte)

Leandro. (Pagherei uno scudo a non esser qui. Me ne anderei, ma non vorrei perdere il mio sonetto). (da sè)

Ottavio. Oh che bestia! Oh che ignorantaccio! Si può far peggio? (legge piano)

Leandro. Signor mio...

Ottavio. Avete sentito questo sonetto?

Leandro. Sì, l’ho sentito.

Ottavio. Si è mai intesa una simile bestialità?

Leandro. Eppure...

Ottavio. Basta dire che sia di quel somaraccio di Leandro Zucconi.

Leandro. (Or ora gli metto le mani addosso). (da sè)

SCENA XIV.

Brighella e detti.

Brighella. Servo de lor signori; sior Leandro, ghe son servitor.

Ottavio. Chi è quello? (a Brighella)

Brighella. El sior Leandro Zucconi, quel bravo poeta.

Ottavio. (Oh corpo del diavolo!) (da sè) Signor Leandro, vi domando scusa.

Leandro. Non si strapazzano così i galantuomini.

Ottavio. Non vi aveva conosciuto.

Leandro. E non conoscendomi ancora, perchè dirmi le impertinenze che mi avete dette?

Ottavio. Compatitemi.