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NOTA STORICA


Il titolo di Feudatario non ci deve spaventare e nemmeno quello più antico di Marchese di Monte Fosco, con cui la commedia si presentò ai Veneziani la prima volta sul teatro di Sant’Angelo ai 7 febbraio del 1752 e fu «bene accolta» per sei sere (v. un’avvertenza nell’ed. Bettinelli e la pref. di Goldoni nell’ed. Paperini). Al regno di Napoli l’autore non chiese a prestito che il nome: invece dei feroci costumi d’un castello del mezzogiorno, ci diede l’ingenua pittura d’una piccola Comunità della repubblica di S. Marco nel bel mezzo del Settecento. Egli stesso ci confessò (Mémoires, II, ch. 13) di aver fatto buona provvista di personaggi ridicoli quando fu nel ’39 per un processo a Sanguinetto, feudo nel Veronese dei NN. HH. Lion Cavazza, in qualità d’Assessore e in compagnia del contino Girolamo (n. 1718): certo negli amori del marchese Florindo con le villanelle di Montefosco c’è da vedere qualche allusione alle accuse degli abitanti di Sanguinetto contro il proprio Vicario o giusdicente (pref.i Pasquali, v. vol. I, p. 129; e l’Amor processato, capitolo per nozze Lion - Gritti, 1761: cit. anche dal Mazzoni, nelle note ai Mém.es, ed. Barbera, I, 464-5). Ma Sindaci e Deputati delle Comunità di montagna aveva conosciuto da vicino il Goldoni a Feltre nel ’28, visitando il paese nella carica di Coadiutore; e forse i ricordi si confusero nella fantasia.

L’antica satira contro il villano aveva ceduto sempre più il luogo nel secolo decimottavo a un nuovo sentimento di ammirazione e di commiserazione per il povero contadino, che agli scrittori più sensibili strappava anche in Italia accenti generosi: molto prima del Filangieri e del Roberti, prima del Patini e d’altri moltissimi, è giusto ricordare sopra tutti il buon C. A. Broggia (Trattato de’ tributi ecc., 1743). Il Goldoni pure, nella seconda prefazione alla commedia (v. pag. 13), riconobbe l’importanza e il merito di questa classe più maltrattata, benchè si divertisse a ridere un pochino alle spalle di questi rustici rappresentanti delle antiche Comunità. I suoi contadini non somigliano affatto all’eterno Ciapo che ricorre noiosamente nel teatro del Fagiuoli, nè ad alcuno dei tipi delle commedie e farse rusticali italiane e francesi: anzi hanno abbandonato perfino il gergo della campagna, che si ritrova in Molière, in Dancourt, in Marivaux; nè cadono nelle pastorellerie note all’autore del Dissoluto e di qualche intermezzo. I contadini di Montefosco, ben diversi dai miserabili servi della gleba di tanta parte d’Europa, non soltanto possiedono case, campi, cavalli, buoi, e vendono liberamente il proprio vino e la propria legna, e parlano non senza vanto in nome della «nobile antica Comunità», bensì osano