Pagina:Goldoni - Opere complete, Venezia 1910, X.djvu/338

Da Wikisource.
328 ATTO PRIMO
Caro maestro mio, filosofo e architetto,

Lodo l’invenzion vostra, ma per me non l’accetto.
Voglio una scarpa buona, che al piede ben mi stia,
Che abbia delle altre scarpe l’usata simetria.
(gli rende le scarpe)
Panich. Sì, sì, l’ho sempre detto, che far le scarpe a donna,
Lo stesso è che di fango dorare una colonna.
Non vagliono puntelli, non vagliono ornamenti,
Se guasto è il capitello, la base e i fondamenti.
M. Brindè. Olà, che ardire è il vostro? Portatemi rispetto.
Panich. Un uom della mia sorte ha il ius di parlar schietto;
Un uom che la tomaia misura colla squadra,
Che del tallon di cuoio anche il circolo quadra,
Che insegna col compasso le regole ai garzoni,
Che sa da un punto all’altro serbar le proporzioni;
Un uom, che su tale arte ha scritto due volumi,
Esente va per tutto da incomodi costumi.
Col tu parla con tutti, va e vien quando gli pare,
Ed ha la sua licenza ancor di strapazzare.
M. Brindè. Ma non avrà per questo la firma o la patente,
Che vaglia a mantenerlo dalle disgrazie esente.
Potrebbe un che le cose a misurar si è dato,
Essere da un bastone sul dorso misurato.
(entra nella bottega del libraio)

SCENA XIII.

Jacobbe Monduill dal libraio incontra Madama Brindè, con cui si ferma alcun poco ragionando e complimentando, e nel medesimo modo si avanzano, mentre maestro Panich favella.

Panich. Azion sarebbe questa da gente ardita e stolta,

Ma non sarebbe poi per me la prima volta.
Spiacemi che gettate ho invano le parole:
Le scarpe son mal fatte, madama non le vuole.