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IL FILOSOFO INGLESE 359
Milord. Spicciatevi, parlate. Da me che pretendete?

Jacobbe. Vorrei giustificarmi, signor, se ’l permettete.
Milord. Nuove proteste i’ sdegno udir da un menzognero.
Jacobbe. Punitemi, signore, s’io non vi dico il vero;
E ben potete voi punirmi in tal maniera,
Che della morte sia pena più cruda e fiera.
Se il re mi condannasse, saprei morir contento:
La morte non è il male ch’io fuggo e ch’io pavento.
Ma a un suddito la vita togliere altrui non spetta;
Altre saran le mire in voi della vendetta.
Che mai potete farmi? Con forza e con danari
Farmi insultar dai sgherri? Non è da vostro pari.
D’ingiurie caricarmi? Dirmi mendace, astuto?
Son povero, egli è vero, ma alfin son conosciuto.
La pena ch’io pavento, che a me da voi si appresta,
È della grazia vostra la privazion funesta.
Un uomo che all’onore consacra i suoi pensieri,
Ama le genti oneste, rispetta i cavalieri;
Ed essere da questi sprezzato e mal veduto,
È pena tal che al cuore porta uno strale acuto.
Povero nato io sono; vivo co’ miei sudori;
Condiscono il mio pane le grazie ed i favori.
Se voi sì saggio e onesto, (per questo i’ mi confondo)
Se voi mi abbandonate, di me che dirà il mondo?
Capace voi non siete di dir quel che non è,
Ma udransi i miei nemici a mormorar di me.
E voi, sol col privarmi di vostra protezione,
Fate la mia rovina, la mia disperazione.
Eccomi innanzi a voi, mi getto al vostro piede...
Milord. Fermatevi.
Jacobbe.   Siam soli, nessuno ora ci vede.
E quando sia veduto, signor, non ho rossore
Gettarmi in faccia al mondo a’ piè di un protettore:
Di un protettor sdegnato, che in sen virtuti aduna,
Che vuolmi abbandonare, ma sol per mia sfortuna.