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152 ATTO SECONDO


Carlotta. Non ci durerò a far questa vita.

Conte. Pare a voi di aver fatto una gran fatica a lasciarvi vestire con un poco di proprietà?

Carlotta. Due ore d’orologio mi ha tenuta sotto quel maledetto boia che m’ha rovinato la testa. Ho pianto come una bambina a vedermi a tagliare i miei capelli, che erano così belli, che tutta la villa soleva dirmi la Carlotta dai bei capelli.

Conte. Guardatevi nello specchio, e vedrete quanto meglio ora state.

Carlotta. Sto meglio, eh? con questa farina sul capo, che pare sia stata ora al mulino? Mi ricordo, quando faceva il pane, mi copriva con un cencio i capelli per non imbrattarli, e ora qui mi convien soffrire di essere infarinata.

Conte. Vi avvezzerete col tempo, e non saprete star senza.

Carlotta. Oh, non mi avvezzerò mai a sentirmi torcere i capelli nelle cartuccie, e poi con un ferro rovente sentirmi aggrinzar la pelle. Che facciano queste cose per comparire le vecchie, le brutte; non una giovane come me, che non faccio per dire, ma tutti mi correvano dietro.

Conte. Colà, dov’eravate, vi conevano dietro i villani; qui dovete comparire tra i cavalieri, e conviene uniformarsi al costume.

Carlotta. Bel costume! Coprir il capello nero colla polvere bianca; sporcare il viso bianco colla terra rossa. Stringer la vita che non si può respirare; tenere le gambe al fresco; stroppiarsi i piedi. Volete che ve la dica? Voglio il mio busto largo, le mie scarpe comode, e un secchio d’acqua da lavarmi questi maledetti empiastri dal viso.

Conte. Sì, tutto quel che volete, e un calesse di ritorno per la campagna, e una falce in mano per tagliar il fieno, e un villanaccio che vi sposi e vi faccia faticar come meritate.

Carlotta. Ma io non voglio partire da voi.

Conte. Ma qui non si sta meco senza adattarsi alla civiltà, al piacer mio, alla situazione in cui mi ritrovo.

Carlotta. E ho da stroppiarmi?

Conte. Vi avvezzerete.

Carlotta. E le mie povere carni hanno da essere tormentate così?