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Pagina:Goldoni - Opere complete, Venezia 1911, XIII.djvu/166

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160 ATTO SECONDO


Conte. Potrebbe darsi; e se vostri sono, ve li manderò sino a casa.

Claudia. No, no, teneteli pure. Ho piacere che voi li abbiate; ma vo’ ben sapere da chi mi sieno stati involati. Nella mia camera altri non viene, per ordinario, che la figliuola e la cameriera.

Conte. Il sospetto non può cadere che sopra la cameriera.

Claudia. Disgraziata! mi sentirà or ora.

Conte. Non fate strepito per così poco, signora.

Claudia. Non è il valore, ma l’azione, l’infedeltà, il pericolo, che mi fa riscaldare.

Conte. Si licenzia la cameriera, e non vi è necessità di scaldarsi.

Claudia. La licenzierò come merita.

Conte. (Povera diavola! me ne dispiace; ma non so che farle). (da sè)

Claudia. Sa il cielo, che cosa mi può avere rubato.

Conte. Non v’inquietate ora fuor di proposito.

Claudia. Le mie gioje, povera me!

Conte. (Non vi è pericolo. Sono al Monte; ma non crede ch’io lo sappia). (da sè)

Claudia. E se mio marito giungesse a sapere che mi mancassero gioje o altro, farebbe il diavolo contro me!

Conte. (Don Eraclio ha mangiato la parte sua). (da sè)

Claudia. (Può essere questo un pretesto buono per chiedergli i mille scudi in imprestito, per ricuperare le gioje. Convien differire per ora). (da sè)

Conte. (Converrà ch’io veda d’informare donna Metilde). (da sè)

Claudia. Conte, se mai quella ladraccia della Jacopina mi avesse rubato le gioje, per amor del cielo, che non lo sappia don Eraclio: aiutatemi voi a ricuperarle.

Conte. Non pensate ora a simili malinconie.

Claudia. Ma dato il caso fossi presaga del vero, mi aiuterete voi, Conte?

Conte. Se la Jacopina vi averà rubato le gioje, m’impegno da cavaliere di ricuperarle io.