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L'AVARO | 411 |
Ambrogio. Venisse oggi l’occasione di farlo.
Conte. L’occasione non può essere più sollecita. Io la bramo in isposa, e vi supplico dell’assenso vostro.
Ambrogio. S’ella si contenta, siate pur certo che io ne sarò contentissimo.
Conte. Spero di lei non compromettermi invano.
Ambrogio. Dunque l’affare è fatto. Parlerò a donna Eugenia, e se questa sera volete darle la mano, io non ho niente in contrario.
Conte. Quando ella il consenta, noi stenderemo il contratto.
Ambrogio. Che bisogno c’è di contratto? Perchè volete spendere del danaro superfluamente? Quello che volete dare al notaio, non è meglio che ce lo mangiamo qui fra di noi?
Conte. Ma della scritta non se ne può fare a meno. Se non altro per ragion della dote.
Ambrogio. Della dote? oltre la sposa pretendete ancora la dote?
Conte. Donna Eugenia, nel maritarsi con vostro figlio, non ha portato in casa la dote?
Ambrogio. Quel poco che ha portato, si è consumato, ed io non ho niente più nè del suo, nè del mio.
Conte. Sedicimila scudi si sono consumati in due anni?
Ambrogio. Si é consumato altro che sedicimila scudi. Principiate a vedere le liste delle spese che si son fatte. (tira fuori le carte)
Conte. Non voglio esaminare quello che abbiate speso per lei; ma so bene che ad una vedova senza figliuoli, si conviene la restituzion della dote.
Ambrogio. Voi siete venuto per assassinarmi.
Conte. Son venuto per l’amore di donna Eugenia.
Ambrogio. Se amaste la donna, non ricerchereste la roba.
Conte. Non la cerco per me, ma per lei, nè posso, colla speranza di essere suo marito, tradir le ragioni che a lei competono.
Ambrogio. Senza che venghiate a fare il procuratore per donna Eugenia, so anch’io da me medesimo quello che può pretendere, e quello che a me si spetta. La dote c’è, e non c’è, la voglio dare, e non la voglio dare; ma se ci sarà, e se