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Pagina:Goldoni - Opere complete, Venezia 1911, XIII.djvu/466

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458 ATTO SECONDO
Conte. È vero, e può anche darsi che sia un bizzarro umore,

Volante, passeggero, il dir ben dell’amore.
Ippolita. Il bene, il mal d’amore anch’io distinguo e vedo.
Voi mi piacete assai.
Conte.   Oh, adesso non vi credo.
Ippolita. Perchè?
Conte.   Quando le donne principiano a lodarmi.
Ho subito sospetto che vogliano ingannarmi.
Ippolita. Dunque s’ha da sprezzarvi, per rendervi contento?
Conte. Le donne che mi sprezzano, le pianto sul momento.
Ippolita. Siete un bell’umorino.
Conte.   Son così di natura.
Ippolita. Che sì, che vi fo piangere?
Conte.   Non mi fate paura.
Ippolita. Gli è che, per dir il vero, perdere non vorrei
Per voi la miglior traccia delli disegni miei.
Conte. Volete maritarvi?
Ippolita.   Oh signor Cavaliere,
Ella, con sua licenza, non è mio consigliere.
Conte. Altro ci vuol, signora, che li consigli miei,
Per reggere una donna bizzarra come lei.
Ippolita. Parmi, signor Contino, troppo eccedente il gioco.
Conte. Ma non mi avete detto, che vi diverta un poco?
Ippolita. Signor, io vi consiglio andar da donna Bianca.
Conte. Vi andrei, ma a dir il vero, troppo voler mi stanca.
Ippolita. So pur, che senza amori vivere non potete.
Conte. Ne posso degli amori trovar quanti volete.
Ippolita. Il merito del Conte ne trova da per tutto.
Conte. Un merto troppo sterile non può sperar buon frutto.
Ippolita. Certo, che mai non fruttano, o fruttano assai meno,
Le piante che non durano tre giorni in un terreno.
Conte. Ma se un terren trovassi, che fosse confacente,
Vorrei le mie radici fissarvi eternamente.
Ippolita. Dunque si può sperare vedervi maritato.
Conte. Io non giurai per anche serbare il celibato.