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Pagina:Goldoni - Opere complete, Venezia 1911, XIII.djvu/491

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L'AMANTE DI SÈ MEDESIMO 483
Non vi è altri nel mondo? Ma chi scusar si suole,

Fa veder che si sente toccar dove gli duole.
Marchesa. Se davver mi dolesse, pianger farei pur tanto!
Bianca. Eh! chi sa che per voi qualcun non abbia pianto?
Conte. Signore mie...
Marchesa.   Codesto sarebbe troppo onore
Per me, che non ho merito.
Bianca.   Un bell’onor!
Conte.   Signore!
Possibil che non possano darsi due donne unite,
Senza che si promova motivo d’una lite?
Marchesa. Caro Conte garbato!
Bianca.   Io sono in casa mia.
Non vo a insultar nessuno.
Marchesa.   Signora, anderò via.
Se qua sono venuta, quasi a dispetto mio,
Mi fe’ quel seccatore venir di vostro zio.
A me, grazie alla sorte, da villeggiar non manca,
Senza un tale rimprovero soffrir da donna Bianca.
E se mi cal d’amanti, ce n’è penuria al mondo?
Se perduto ho un marito, non troverò il secondo?
È il Conte un amorino? È un principe d’altezza?
È l’idolo de’ cori, l’idea della bellezza?
È tal che non lo stimo, e glielo dico in faccia.
Tenetelo, godetelo; per me, buon pro vi faccia.
Bianca. Rispondervi non lice a una fanciulla onesta.
Marchesa. Oh oh, se non avete altra ragion che questa!
Conte. Se vi siete sfogata, posso sperare adesso,
Che mi sarà, madama, rispondervi concesso.
Son un, che non mi stima la signora Marchesa.
Quello che dir s’intenda, non l’ho per anche intesa.
Marchesa. Non occor che mi spieghi.
Conte.   Son un, che non mi stima.
Quando così si parla, si ci1 riflette in prima.

  1. Così il testo, invece di ci si.