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388 | ATTO TERZO |
E si fa tosto il nodo, ed il danar si conta.
Clementina. Per me quel che far posso, sono disposta a fare.
Paoluccio. Signor, questo latino spiegatemi in volgare.
Non vorrei che la sposa, prima di maritarsi,
Avesse quella dote con voi da guadagnarsi.
Anselmo. Questo sospetto vano cacciatevi dal cuore;
Non son un uom ribaldo, non sono un impostore.
Ite, buona fanciulla, a far quel che mi preme;
Poscia il danaro è vostro, e vi sposate insieme.
Paoluccio. Sì, Clementina, andate, che a farlo io mi apparecchio.
Clementina. (Chi sa non mi riesca di consolare il vecchio?)
(da sè, e parte)
SCENA III.
Don Anselmo e Paoluccio.
Principiare a contare.
Anselmo. Ah no, figliuolo caro,
Non vo’ sentirvi tanto avido di monete.
Non è l’oro e l’argento quel ben che voi credete.
Se d’oro, se d’argento non fosse il mondo pieno,
I vizi ed i pericoli sarebbero assai meno.
Comprasi a caro prezzo dall’uom la sua rovina,
E l’uom quanto è più ricco, più al precipizio inclina.
Felice chi di poco sa contentare il cuore,
Felice chi guadagna il pan col suo sudore.
Qui dentro voi credete vi sia la vostra sorte,
E voglia il ciel pietoso che non vi sia la morte.
Ah, quest’oro è un veleno. (mostrando la borsa)
Paoluccio. Signor, vi prego darmi
Un poco di quell’oro. Vorrei avvelenarmi.
- ↑ Zatta: potremo noi il danaro ecc.