Pagina:Goldoni - Opere complete, Venezia 1912, XIV.djvu/508

Da Wikisource.
500 ATTO TERZO

SCENA VIII.

Donna Luigia e detti.

Luigia. Sì signori, è vero, don Anselmo è un perfido, ed ecco chi può saperlo. (accennando Rosina)

Rosina. Ma il danaro io non l’ho ancora veduto.

Berto. Come! don Anselmo.... Rosina.... la nipote.... i miei zecchini.... che cosa ho da fare, signori miei?

Placida. Sentiamo che cosa dice il signor capitano.

Anselmo. No no, che il signor capitano non s’incomodi di dar sentenza. Confesso da me medesimo, pieno di rossore e confusione, che ho procurato finora di mascherare le mie passioni, ma il cielo mi vuol punito, mi vuole mortificato. Pazienza. Ecco i cento zecchini che mi avete dato. (a don Berto) Ah voi mi rovinaste, il cielo ve lo perdoni. (a donna Placida, e parte)

Berto. Io son di sasso.

Ferramondo. Non speri di passarsela così facilmente. Lo voglio far bastonare da quattro de’ miei granatieri.

Fausto. No, signor capitano; domani farò che dal Governo il perfido sia esiliato.

Berto. Povero don Anselmo!

Placida. Ancora vi sta nel cuore quell’impostore mal nato? (a don Berto)

Berto. No, non ci penso più.

Placida. Vada egli da noi lontano, che non ne resti memoria; e vada ugualmente la serva ancora, che ha contribuito ai disegni suoi.

Berto. Sì, vada la serva ancora.

Rosina. Pazienza! Paoluccio, mi vorrai più bene?

Paoluccio. Eh, non son così pazzo. Mi ricordo le lezioni di donna Placida: senza dote non mi marito.

Rosina. Ma! hanno ragione di maltrattarmi. Signori, vi domando perdono. Povera disgraziata! È venuto un impostore a fare la mia rovina. Avrò imparato a mie spese, che la dote abbiamo