Elisabetta. Certo, l’agricoltura è uno studio bellissimo.
In casa mia, il sapete, ho un giardin picciolissimo;
Pur vi è un poco di tutto: lasciato il mio lavoro,
Prendo nell’ore fresche dolcissimo ristoro.
Carolina. Ed al paese mio... No, non vo’ dir niente...
Vanno sulla finestra a saettar la gente.
Dir mal della sua patria non istà ben, l’accordo;
Ma spiaccionmi quegli usi, quando me li ricordo.
Giuseppina. Madama, in quel recinto chiuso da’ ferri intorno,
Di piante sconosciute e di alberetti adorno,
Scusatemi di grazia, che c’è? (a madama Marianna)
Marianna. Vel dirò io:
Quello è il giardin dei semplici, lo studio di mio zio.
Dentro vi son dell’erbe, che hanno di gran virtù;
Ma ancor di velenose.
Giuseppina. Oh, non ci guardo più.
Marianna. (L’amico ove sarà?) (piano a Carolina)
Carolina. (Chi lo sa, poverino!)
Marianna. (Digli che si diverta, che venga nel giardino).
Carolina. (Glielo dirò, signora; ma poi cosa sarà?)
Marianna. (Ma via, non tormentarmi).
Carolina. (Zitto, zitto, verrà). (parte)
Elisabetta. Madama, che si fa? Oggi non si lavora?
(a madama Marianna)
Marianna. Possiamo divertirci.
Elisabetta. È troppo presto ancora.
Star tutto il giorno in ozio sapete ch’io non amo.
Darò, se il permettete, due punti al mio ricamo.
Andiam, che il lavorare mi riuscirà più grato:
Andiam tutte a sedere d’intorno al pergolato.
Federica. Anch’io un paio di giri farò ne’ miei calzetti.
Giuseppina. Vi terrò compagnia; farò quattro gruppetti.
Marianna. Servitevi, madame: casa mia è casa vostra;
Questa è la prima legge dell’amicizia nostra.
Elisabetta. Mi ricorderò sempre quel detto di mia madre: