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136 ATTO SECONDO
Dorotea. È venuto mio suocero a dirmi un’insolenza.

Conte. Imprudente!
Dorotea.   Poc’anzi, senza rispetto, ardito.
Si è avanzato a deridermi.
Conte.   Oh vecchio rimbambito!
Dorotea. In tempo che sollecita io mi prendea l’affanno
Per lui, per la sua figlia; si pentirà.
Conte.   Suo danno.
Dorotea. Chiamarmi per ischerzo col titol di padrona!
Una donna mia pari così non si canzona.
Un fallo d’ignoranza lo so anch’io perdonare;
Ma poi, quando m’insultano, so farmi rispettare.
Conte. Manchereste a voi stessa soffrendo i loro oltraggi.
Sareste condannata dagli uomini più saggi.
Dorotea. Conte, ve lo protesto, non dico una parola.
Per lo più nel mio quarto sto ritirata e sola.
Lascio che tutti facciano quello che voglion fare;
E se una volta parlo, mi vengono a insultare.
Conte. E voi cangiate stile, parlate con impero;
Fate veder che siete padrona daddovero.
Dorotea. Non ho un can che mi aiuti: son sola, ed essi in tre.
Padre, figlio, sorella, tutti contro di me.
Mi beffano ancor essi, se a’ miei parenti il dico,
E nelle mie occorrenze non trovo un buon amico.
Conte. Conosco il mio demerito, per questo io non ardisco;
Ma se di ciò son degno, servirvi mi esibisco.
Dorotea. Farete come gli altri, che dopo quattro dì
Mi han voltato le spalle.
Conte.   Io non farò così.
Sono colle signore costante e sofferente.
Dorotea. Da me, quei che mi trattano, non hanno a soffrir niente.
Io sto dove mi mettono. Fatemi allesso, o arrosto,
Alla condiscendenza ho l’animo disposto.
Quando a parlar mi chiamano, dico la mia opinione,
Per altro facilmente mi arrendo alla ragione.