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436 ATTO QUINTO
Giuseppina. Maledizion, cospetti, e poi cosa si fa?

Noi ci perdiamo in chiacchiere, e il tempo se ne va.
Cara zia, compatitemi, gridar non mi suffraga1.
Voglion essere fatti.
Dorotea.   Affè, voi siete vaga!
Che volete ch’io faccia? Altro far non mi resta.
Che dare a questo vecchio un colpo sulla testa.
Giuseppina. Lo strapazzar, signora, ed il menar le mani,
Son cose da plebei, son cose da villani.
Se altro non sapete trovar per aiutarmi...
Dorotea. Dunque, se non vi comoda, lasciate di seccarmi.
Giuseppina. Non si potria piuttosto..?
Dorotea.   A ogni cosa si oppone.
Si perde con costoro la lisciva e il sapone.
Giuseppina. Nel caso mio conviene...
Dorotea.   Tutto è la cosa istessa.
Giuseppina. Parlare, maneggiarsi...
Dorotea.   Vuol far la dottoressa.
Giuseppina. E ritrovare il mezzo...
Dorotea.   Non la posso soffrire.
Giuseppina. Lasciatemi parlare. (con caldo)
Dorotea.   Cosa vorreste dire?
Giuseppina. Dico così, signora, che vuole il caso mio.
Che al governo si vada ad accusar mio zio.
A dir che di una serva l’inganno e la malizia
Fa ch’egli alla nipote commetta un’ingiustizia.
Che l’unico rimedio per riparare il male,
È il far che si presenti in corte un memoriale.
E domandar giustizia, e far quel che va fatto,
E fuor di questa casa uscire ad ogni patto.
E trovar protezione di nobili soggetti,
E non sfiatarsi invano coi strilli e coi cospetti.
(con forza e sdegno).

  1. Edd. Guibert-Orgeas, Zatta ecc.: gridare non suffraga