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Pagina:Goldoni - Opere complete, Venezia 1913, XVII.djvu/274

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262 ATTO QUINTO

Servitore. E dove vuol che lo prenda?

Carluccio. Che? non vi è cioccolato? L’impresario non ce l’ha preparato? Prendilo alla bottega.

Servitore. E chi pagherà?

Carluccio. Pagherà l’impresario.

Servitore. Scusi; non mi ha dato questi ordini.

Carluccio. Pagherò io.

Servitore. È ancor di buon’ora, la bottega non è aperta; quando si aprirà, farò venire il garzone.

Carluccio. Ma io non posso aspettare. Son di stomaco delicato, ho tralasciato di far colazione per venire di buon’ora da quest’asino d’impresario.... Guarda se c’è qualche cosa nell’osteria.

Servitore. Signore, questa non è osteria, ma è locanda.

Carluccio. Maledette siano le locande, ed i locandieri! Fanno gli osti, e non vogliono che si dica osteria. Portami da mangiare.

Servitore. Io non so cosa darle, e non le porterò niente.

Carluccio. Ti do un calcio. Ti do la scuriata a traverso la faccia.

Servitore. Mi fa ridere! Cosa vuô fare in nave della scuriata e degli stivali?

Carluccio. Animale! i pari miei non viaggiano senza stivali, e colla scuriata terrò i marinari svegliati.

Servitore. Badi bene, che se farà il pazzo in nave, la getteranno in mare.

Carluccio. Asino.

Servitore. Non istrapazzi, che cospetto della luna, a bastonar lei mi parrebbe di bastonare un sacco. (con forza)

Carluccio. Ma, caro amico, non posso più; ho bisogno di reficiarmi, portatemi qualche cosa per cortesia.

Servitore. Oh, se parlerà così, è differente. Vado subito a servirla.

Carluccio. E che cosa mi porterete?

Servitore. Un bicchier d’acqua tepida.

Carluccio. Dell’acqua ad un par mio?

Servitore. Non ho altro da darle. Se la vuole, la prenda; se non la vuole, la lasci. (parte)