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Pagina:Goldoni - Opere complete, Venezia 1913, XVII.djvu/290

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Ed ei che lo sapeva, in luogo d’esentarmi.

Per onta e per dispetto, cantar volea sforzarmi.
Sentite cos’ha fatto quel perfido impresario!
Ogn’aria ch’io lasciavo, scemava il mio onorario,
Onde per non ridurmi a cantar per niente,
Con sì barbara legge cantai continuamente.
Conte. Se i musici da tutti fosser così trattati,
Oh quanto sarian meno svogliati o raffreddati.
Un galantuom va a spendere il suo danar, credendo
Goder la bella voce del musico stupendo,
Ed ei, perchè la bella non l’ha guardato in cera,
Dice: mi sento male, non vo’ cantar sta sera.
Corbella l’uditorio in grazia della vaga,
E l’udienza scema, e l’impresario il paga.
Carluccio. Questa ragion non serve con un della mia sfera;
Non vanno i pari miei trattati in tal maniera.
Canto quando ne ho voglia, e canto a mio talento,
E una volta che canti, ha da valer per cento.
Conte. Se farete così, Carluccio mio garbato,
Pochissimo sarete a recitar chiamato.
Carluccio. Io non cerco nissuno; sostengo il mio decoro.
Bisogno han gl’impresan più di me, ch’io di loro.
Conte. Voi siete, a quel ch’io sento, carico di ricchezze;
Avete in poco tempo fatto di gran prodezze.
Carluccio. Sono ancor giovanetto, ricchezze ancor non ho;
Ma coll’andar dei giorni, ricchezze anch’io farò.
Conte. Or come state a soldi?
Carluccio.   Ora non ho un quattrino,
E ho lasciato il baule in pegno al vetturino.
Conte. Bella, bella davvero. Siete ancora spiantato,
E a strapazzar le imprese avete principiato?
Acquistatevi prima dei fondi e dei danari.
Poi fate quel che fanno i musici primari.
Allor potete dire, se di voi fama vola,
Costa mille zecchini un’arietta sola,