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Dunque torno a ripetere, il dirlo a cento o ad uno,

È lo stesso qualora non sa tacer nissuno.
Tutti aveste il segreto; tutti avete parlato;
Non cerco chi fu il primo, chi l’ultimo sia stato.
Dirò di più, se occorre, con chi parlasse ardito:
Voi mancaste di fede, ed io mi ho divertito.
Tonina. (Quanto che volontiera lo manderia sto sior).
Annina. (Propriament an sent ch’am vein al mi scador).
Maccario. (Se il Conte mi abbandona, perduto ho il pane mio).
Carluccio. (Spiacemi che sperava di traghettarmi anch’io).
Pasqualino. Signor, quel che ha scoperto, un accidente è stato...
Conte. Non parliam più di questo. Lo sdegno mi è passato.
Ora che questo fatto si sa pubblicamente,
Possiam per aiutarvi parlar liberamente.
Ragazze mie, se posso, per voi non mi ritiro:
Servir le belle donne per mio costume aspiro.
Tonina. La collera de drento proprio m’ha fatto sè.
Se ghe n’avesse in casa, beverave un caffè.
Conte. No, la collera scalda, e il caffè non rinfresca;
È meglio per la bile un bicchier d’acqua fresca.
Annina. L’è mei la limunà.
Conte.   La limunà fa male.
Il limon per la bile, credete, è micidiale.
Carluccio. Tè, caffè, cioccolata, tutto quel che volete,
Manderò io a pigliare.
Conte.   Eh via, sciocco che siete.
Se avete dieci soldi, serbateli a mangiare,
Per non aver bisogno di farveli prestare.
Quando che ci son io, non s’offre alle signore
Tè, caffè, cioccolata, per farmi il precettore.
So anch’io quel che va fatto, quando mi preme e piace,
E quando si vuol spendere, so che si fa, e si tace.
Ora non mi par tempo di tai corbellerie;
Di quel che importa più, parliam, signore mie.
Il Turco mercadante spero che qui verrà;