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258 ATTO TERZO


Ridolfo. Questa poi è un’ingratitudine. Io so, che se ottenessi da lei qualche grazia, non mancherei alla debita riconoscenza.

Properzio. Avete bisogno di qualche cosa?

Ridolfo. Dirò, signore; ho fatto un picciolo poema, lo vorrei dare alle stampe, e mi premerebbe dedicarlo ad un mecenate che non mi fosse ingrato; onde se la signora donna Giulia mi procurasse la protezione di qualcheduno...

Properzio. SÌ, raccomandatevi a lei, e non dubitate.

Ridolfo. Quando ella mi fa coraggio, mi azzarderò a supplicarla.

Properzio. Avvertite poi non fare anche voi come fanno gli altri.

Ridolfo. Saprò il mio dovere.

Properzio. E se ella mostrasse, per prudenza, di ricusar le vostre finezze, mandate a me quel che vorreste mandare a lei, che sarà ben accettato.

Ridolfo. Benissimo. Vuol sentire qualche stanza del mio poema?

Properzio. Io non me n’intendo gran cosa.

Ridolfo. Eh! so ch’ella è di buon gusto, e poi è scritto in uno stile che non le dispiacerà.

Properzio. Via, sentiamo. (Se dico di no, è capace di non mandar niente).

Ridolfo. Ecco, signore. L’argomento è sopra i deliquj.

Properzio. Sopra i deliqui?

Ridolfo. Sì, signore, sopra gli svenimenti.

Properzio. Che diavolo di argomento patetico!

Ridolfo. È una novità.

Properzio. Lasciate vedere.

Ridolfo. Leggerò io, se comanda.

Properzio. No, no, ho piacere di legger io.

Ridolfo. Si serva.

Properzio. (Legge fra’ denti, in maniera che non si sente altro che borbottare.

Ridolfo. (Legge in un modo che mi fa morire). (da sè)

Properzio. (Come sopra.)

Ridolfo. (Poveri versi!) Favorisca, che gli pare di quell’immagine della rosa languente?