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262 ATTO TERZO

SCENA X.

Donna Giulia e don Properzio.

Giulia. (Ma! io penso agli altri, e non penso a me stessa. Sarebbe ora il tempo di parlare con don Properzio).

Properzio. (Mia moglie mi guarda, e non dice niente. Da una parte ha qualche ragion di dolersi).

Giulia. (Vo’ provare di mettere in pratica il progetto che ho divisato). Signor don Properzio. (lo chiama)

Properzio. Padrona mia.

Giulia. Si ha da durar lungo tempo a vivere in cotal guisa?

Properzio. Signora mia, non saprei che dire; chi l’ha voluta, se l’ha da godere. (Voglio sostenere la mia ragione).

Giulia. Per me, me la posso godere per oggi. Domani non sarò in questo stato.

Properzio. E cosa sarà domani?

Giulia. Domani sarò in casa de’ miei parenti, ben servita, ben veduta, e trattata da quella dama che sono.

Properzio. S’accomodi pure. Stia bene, stia sana, si diverta, e se posso servirla, mi comandi. (Volesse il cielo, che dicesse la verità).

Giulia. Ella poi avrà la bontà di darmi il mio mantenimento.

Properzio. In casa de’ suoi parenti? Sarebbe un far torto alla sua famiglia.

Giulia. Io non voglio mangiare di quel di nessuno.

Properzio. E perchè vuol mangiare del mio?

Giulia. Del suo! voglio del mio, e non del suo. Il frutto di sessantamila scudi di dote potrà farmi vivere decentemente.

Properzio. Come! la dote? La dote è cosa mia. Finch’io vivo, nessuno mi può obbligare a restituire la dote. La dote è mia.

Giulia. Sì, quand’ella tratti la moglie come deve esser trattata, e non dia motivo ad una separazione legale, che l’obblighi o a restituire la dote, o a fare un assegnamento che mi convenga.