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315 e sgg., 323 e sgg.). Può darsi che questa fosse anche la fonte di Des Fontaines, di La Calprenède e di due altri Belisari, di autore ignoto, che si ricordano in Francia nel secolo di Corneille: certo fu la fonte della Caduta del gran Capitano Belisario sotto la Condotta di Giustiniano Imperatore, “tragedia” stampata nel 1661 a Bologna e assegnata comunemente a Giacinto Andrea Cicognini che mori l’anno precedente; ma da qualcuno a Francesco Stromboli veneziano (L. Grashey, G. A. Cicogninis Leben und Werke, Kirchhain N.-L., 1908, pp. 23 e 31). Dal Cicognini si cavò lo scenario di cui abbiamo un esemplare nello Zibaldone del conte Annibale Sersale (donato dal Croce alla maggior biblioteca di Napoli), al num. 11 del vol. II. I personaggi principali nella comedia spagnola, nella tragedia di Rotrou, in quelle del Cicognini e del Goldoni, e nello scenario italiano sono sempre gli stessi, ed anche la favola ha sofferto lievissime modificazioni (sullo scenario v. un cenno in Bonfanti, 1. c., p. 35, n. 2: che il Goldoni risalisse direttamente al dramma di Mira di Mescua, come afferma Lebermann in una tesi che il Maddalena mi ricorda, Belisar in der Litteratur der romanischen und germanischen Nationen, Nurnberg, 1899, non è da credere affatto) ma il poetino veneziano ha levato via il Dottore di Corte e le maschere dei servi che deturpavano lo scenario, non ha permesso nemmeno a Passarino, il “servo sciocco” di Cicognini, di mostrarsi fra le quinte, ha severamente soppresso ogni scherzo che sembrasse profanare la nobiltà dell’azione, ha voluto, senza parere, con la sua aria modesta, acconciarsi ai classici precetti dell’arte poetica, rispettando perfino le unità di tempo e di luogo, per avvicinarsi ai signori letterati, dei quali agognava in segreto l’approvazione.

Tre eremo in quel tempo i maggiori rappresentanti della letteratura e della poesia nella Repubblica di S. Marco, Scipione Maffei a Verona, l’autore della Merope (recitata nel 1713), Antonio Conti a Padova, l’autore del Giulio Cesare (stamp. 1726), e Apostolo Zeno a Venezia, il riformatore del melodramma (Lucio Vero, 1700). Quest’ultimo era più noto allora al Goldoni, che nel rimaneggiare e verseggiare il Belisario con l’innato suo buon senso si lasciò guidare da quelli stessi concetti che avevano condotto lo Zeno a liberare il dramma musicale dalle gonfiezze dello stile, dall’arruffio degli intrecci e dalle buffonerie triviali del Seicento (vedi, sebbene non tanto esatta, Olga Marchini-Capasso, Goldoni e la commedia dell’arte, Napoli 1912, pp. 168-9). Non potè tuttavia impedire che nella recita il Vitalba, sostenendo il personaggio di Belisario, quando nell’ultimo atto esce sulla scena cieco e misero come Edipo “moralizzando sulle vicende umane”, lasciasse l’occasione di dare “un colpo di bastone a una guardia per far ridere l’uditorio” (Memorie cit., voli. I di questa ediz., p. 99). Comunque, è importante la data del Belisario, perchè segna il primo vero trionfo in Italia di un’opera scritta, senza maschere e senza musica, su teatro pubblico, dopo la famosa Merope del Maffei (G. Ortolani, Della vita e dell’arte di C. G., Ven. 1907, p. 25).

Fra i pochissimi che degnarono d’uno sguardo il Belisario, il giovine Luigi Carrer lo chiamò un miserabile dramma giudicandolo “pieno di inezie, senza stile, senza evidenza, senza caratteri, di cui tutto il merito si riduce ad un accozzamento forzato di situazioni teatrali le più comunali” ( Vita di C. G., Ven. 1824, I, 59). Accettiamo pure tale condanna, tanto più che il Goldoni stesso, dopo aver scritto i Rusteghi e altri capolavori, non sapeva indursi a