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DON GIOVANNI TENORIO 311
Dunque femmina siete? Ed io fui quegli

Che v’ingannò, che vi tradì, che fede
Vi promise, e mancò? Non mi sovviene.
D. Isabella. Non vi sovvien donna Isabella? Il crudo
Fiero dolor, le lacrime, i sospiri,
Le vigilie, i disagi, il gran viaggio
Aver potriano il volto mio cangiato;
Ma un nome tal dovria destarvi in seno
Il rimorso, il rossor; dovreste, ingrato,
Scuotervi dal letargo, e i giuramenti
Rammentar, che faceste al cielo, ai numi.
D. Giovanni. E pur di ciò non mi sovviene ancora.
D. Isabella. Perfido, voi la fè non mi giuraste,
Non mi giuraste amor?
D. Giovanni.   So che il mio cuore
Mai s’impegnò di serbar fede a donna.
D. Isabella. Ah t’intendo. Dir vuoi, mendace, infido,
Che se tua sposa m’appellasti un giorno,
Lo dicesti col labbro, e non col cuore;
Che fingesti d’amarmi, e che rapita
Dall’incauto amor mio soverchia fede1,
Or me deridi, e il mio dolor schernisci;
Sogno non è la fede mia tradita,
Sogno non è mio vilipeso amore.
Invano, traditor, finger procuri;
Il mio volto, il mio nome, i nostri ardori
Non rammentar. Empio, t’ascondi invano;
Ti conosco pur troppo; e se ricusi
Render giustizia al mio tradito amore,
Farò col sangue tuo vendetta almeno.
Su via, quel ferro impugna. O vo’ la vita
Perdere teco, o risarcir miei danni.
D. Giovanni. Non soglio, amico, a mentecatti, a insani
Prestar orecchio. L’impugnar la spada

  1. Così si legge io tutte le edizioni; e sarebbe arbitraria ogni correzione.