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340 ATTO QUINTO
Chiesi ardito mercè. La bella irata

Con disprezzi e con onte a me rispose,
Ond’il furor la terza fiamma accrebbe.
Più ragion non mi resse, alle minacce
L’ira mi trasportò. Venne in mal punto
Il padre armato, e senza udir discolpe,
Al cimento m’indusse. Io provocato
Colpi vibrali dal mio voler non retti,
Ma dal fiero destin, che la mia spada
Nel sen di lui miseramente impresse,
Onde cadde trafitto. Ecco, signore,
Le colpe mie, le confessai, son queste.
Rammentate però, che errai guidato
Da due perfidi ciechi. Ah se gli accenti
Scioglier potesse da quel marmo illustre
L’eroe trafitto, ei chiederla pietade,
Signor, per me. Di non aver frenata
La soverchia ira sua forse or si pente,
E in me l’eccesso giovenil condona.
Che giova a lui la morte mia? Che giova
Il mio sangue alla figlia egra e dolente?
Altro, per risarcire i danni suoi,
A me chieder dovrebbe, ed io giustizia
Non le saprei negar, la man porgendo
Di sposo a lei, che per mia colpa è in pianto
Don Giovanni perisca: avrà donn’Anna
Risarcito l’onor? Lascerà il mondo
Di dubitar, che abbia difeso invano
La sua onestà da un risoluto amante?
Infelice donn’Anna! Il duol l’opprime,
E non vede il maggior de’ suoi perigli.
So che a troppo m’avanzo. Il delinquente
Fissar non dee del suo fallir la pena.
Però chieder pietade a tutti lice,
E offrirsi a ciò che risarcir può il danno