Pagina:Goldoni - Opere complete, Venezia 1926, XXIII.djvu/358

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quale si addensano a mano a mano le minacce del cielo. È libertino per esuberanza di forze, non per corruzione; cede all’irresistibile impeto della giovinezza più che agli impulsi del male (ivi, pag. 49). Ricordiamo come nascesse sotto il regno di Filippo IV, nella Spagna dei pìcari. Al Farinelli parve “l’incarnazione tipica delle tendenze epicuree che ogni uomo alberga in petto”.

Quando tale dramma sulla metà del secolo decimosesto passò in Italia, perdette in parte il carattere morale religioso e malamente si arricchì di lazzi burleschi. Il Goldoni conobbe le due povere imitazioni italiane, quella del napoletano Onofrio Giliberto (1652, secondo Allacci) e quella del fiorentino Giacinto Andrea Cicognini (morto nel 1660) che fecero la fortuna delle compagnie comiche dell’arte; anzi afferma che v’era fra esse “pochissima differenza”, s’egli ben ricorda (v. L’Autore a chi legge). Ma dell’opera del Giliberto nessun esemplare è rimasto e al Cicognini quasi ci ripugna di assegnare quella vera sconciatura del Burlador che s’intitola Il Convitato di pietra, opera reggia et esemplare, dove non solo sparisce quanta freschezza e potenza d’invenzione e quanta poesia è nell’originale spagnolo, ma dove si odono le più volgari e stupide oscenità del teatro dell’arte in quei dialoghi in dialetto, intrusi per forza, fra il Dottore, Pantalone e Brunetta (del Cicognini lo ritiene Guelfo Gobbi “fino a prova contraria”: v. Cicognini e Tirso de Molina, in Biblioteca delle Scuole Italiane, XI, n. 20, 31 dic. 1905, pp. 240-241. Nulla dice L. Grashey nel suo povero saggio su G. A. Cicogninis Leben und Werke, Kirchhain N.-L., 1908). Il Convitato ebbe un gran numero di ristampe in Italia: ho qui, per esempio, l’edizione di Bologna, per Gioseffo Longhi, della fine del seicento, e quella di Venezia, Bassaglia, 1787; e non differiscono che per il nome del servo di don Giovanni, divenuto Truffaldino, di Passarino ch’era prima. Io non dubito che proprio questo misero mostro teatrale, in tutto degno d’un “uditorio di serve, di servitori” e pur troppo “di fanciulli”, insomma “di gente bassa, ignorantissima”, come dice il Goldoni, servisse agli scenari delle infinite compagnie comiche le quali continuavano ancora nei primi decenni del secolo decimonono ad ammanire al pubblico italiano il Convitato di pietra.

Di questi scenari ne conosciamo uno napoletano, col Pulcinella (nollo Zibaldone della fine del seicento che Benedetto Croce donò alla Biblioteca Nazionale di Napoli); che segue invero, “salvo alcuni spostamenti di scena”, l’opera attribuita al Cicognini (De Brouwer, Rass. Crit, cit., p. 148). Certo in una “rappresentazione” così sconnessa e bizzarra, che confondevasi nell’ultimo atto con la fiaba teatrale, potevano i nostri valenti comici introdurre a volontà i loro lazzi migliori. Di qui la grande fortuna del Convitato fin che durò in Italia il teatro dell’arte. I comici dicevano, racconta il Goldoni, “che un patto tacito col demonio manteneva il concorso a codesta sciocca Commedia” (L’Autore a chi legge). Giustamente scriveva Carlo Gozzi: “È ben da stupire, riflettendo all utilità teatrale, che il Convitato di pietra, replicato da più di un secolo, abbia dato in quest’anno 1773 alla Truppa Sacchi 657 lire nella cassetta alla porta, e che il Disertore del Sig. Mercier, dramma esposto tra noi da due soli anni, e in così gran credito, abbia dato poco più di 200 lire ai colti Comici del Teatro di S. Angelo” (Opere edite