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dici recite a ritirare la propria commedia dal teatro dove non risalì fino alla metà del secolo decimonono: ma nel 1677 si potè impunemente rappresentare a Parigi il Convitato di pietra (o meglio il Banchetto dell’uomo di pietra) di Tommaso Corneille, cioè una traduzione in versi dell’opera di Molière in cui scompariscono o si attenuano le parole più empie di don Giovanni; e nella nuova veste fu applaudito sui teatri di Francia per quasi due secoli. Del Nuovo convitato di pietra ossia l’ateo fulminato (1669) dell’attore Rosimond, nè del Libertino (1676) di Tommaso Shadwell, che portò don Giovanni sulle rive del Tamigi, non fa menzione il Goldoni; e nulla seppe della fortuna dell’eroe leggendario ne’ paesi tedeschi (Farinelli, l. c.).

Nella prefazione alla sua commedia, nelle memorie scritte in italiano per l’edizione Pasquali e nelle memorie francesi il dottor veneziano ci raccontò a lungo da quali circostanze e da quali idee fosse indotto a “riformare”, come dice (vol. I della presente ed., pag. 118), il Convitato di Pietra, ossia il mostruoso canovaccio che recitavasi sui teatri italiani. La sua preoccupazione nei suoi primi anni è sempre quella: muovere guerra al Seicento. Per rendere più regolare l’opera sua, secondo i precetti della scuola classica, gli parve bene ricorrere al verso endecasillabo, al gran verso tragico, come aveva fatto per il Belisario e per la Rosmonda; stabilì l’azione in Castiglia, soppresse del tutto l’Arlecchino (il gracioso Catalinon del testo spagnolo, lo Sganarello di Molière) e le altre maschere, soppresse l’episodio della pescatrice (Tisbea nell’autore spagnolo, Rosalba nell’italiano), osò sopprimere sopra tutto la famosa cena con la statua del Commendatore semovente e parlante, cioè quell’elemento fantastico e soprannaturale che formava la parte più caratteristica nelle rappresentazioni del dramma tradizionale, popolare in Spagna in Francia in Italia; e gli parve di aver fatto abbastanza per ottenere l’approvazione dei letterati del tempo, riformatori del teatro. Così il Don Giovanni finì col perdere l’originalità pittoresca e ogni potenza d’arte. Questo tentativo di voler donare moralità e regolarità e decoro allo scenario italiano fu fatale al giovane Goldoni, tradito ingenuamente dai vecchi pregiudizi scolastici e troppo ancora devoto ai consigli dello Zeno. Egli distrusse il Don Giovanni. Il suo eroe non è più che un vano manichino, un dissoluto, un bugiardo qualsiasi, non più il giovane seduttore e trionfatore di tutte donne, nè il genio del male, ma una specie di Lelio senza colore e vigore. Un furioso, un forsennato diventa poi nella penultima scena. Tutto è qui ancora falso, tutto fuori del reale, tutto fuori del mondo goldoniano e dell’arte goldoniana. Se ne accorse da vecchio l’autore e condannò questo infelice componimento (v. Mémoires, partie I, ch. 39) in cui il giovane dottor Goldoni era sceso al di sotto della Rosmonda e del Belisario. (“Il dramma è scritto un po’ ad occhi chiusi”, osserva giustamente il Farinelli, “alla carlona, come veniva, senza troppe preoccupazioni per l’arte„: l. c., pag. 76).

Quando lo scrisse era l’autunno del 1735 (non ’36, come si legge in testa alla commedia nell’ed. Paperini e in quelle che poi seguirono): aveva allora ventott’anni, e portava in cuore una lieve ferita amorosa infertagli dalla Passalacqua e dal Vitalba. Quasi certamente le avventure del comico Vitalba “damerino di professione, avvezzo a dominare sul cuore principalmente delle sue compagne di scena” (vol. I, pag. 117), gli fecero ricordare le geste di