Pagina:Goldoni - Opere complete, Venezia 1926, XXIII.djvu/88

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Mi diede e meco qui d’Antiochia venné.

Accolta fui, e il vecchierel pietoso
Convinto da ragion, mosso da prieghi,
Quest’abito mi diè, ch’è ancor di quelli
Ch’egli portar solea, quand’era in corte.
Sconosciuta così venni alla reggia.
A te dunque ricorro in tal periglio.
Tu la mia vita e l’onor mio difendi.
Giustiniano. Perchè la morte tua voler Teodora?
Antonia. Perchè son io di Belisario amante.
Giustiniano.   Ed a lei cal di ciò?
Antonia. Ah che pur troppo
Del medesimo foco arde ancor essa.
Giustiniano. Come?
Antonia.   Se il ver non dico, il ciel m’uccida.
Giustiniano. Oh funesto principio!
Narsete.   E peggio il fine.
Antonia. Ella m’impose muta farmi e cieca
In faccia del mio bene; ed oh qual pena
Provai allor che all’amor mio vicina,
Nè mirarlo potea, nè favellargli!
Ella stava guatando; ed ei crudele
Mi chiamava, e infedel diceami a torto.
Giustiniano. (Qual orror mi sorprende!) (da sè, agitato
Antonia.   Indi la cruda
Minacciando volea che la mia destra
Dessi di sposa al traditor Filippo;
Ed ei che m’ama quant’io l’odio, ogni opra
Fece per possedermi, e tutto in vano.
Giustiniano. (Cresce il sospetto mio). (da sè
Narsete.   (Barbara donna!)
Antonia. Belisario mi crede a lui costante;
Mi scrive un foglio; si querela in esso:
Teodora mel toglie; empia mi niega
Di leggerlo il piacer; indi minaccia