Pagina:Goldoni - Opere complete, Venezia 1927, XXIV.djvu/402

Da Wikisource.
398 ATTO QUINTO
Se liberi voi siete, sieno le destre unite;

Sian le amorose frodi, sian le follie finite.
Tua servitude, Ircana, a me recasti in dono;
Questa in dono ti rendo, più tuo signor non sono.
Zaguro. Se più non è tua schiava, se va da te lontana,
Vogl’io la preferenza nell’acquisto d’Ircana.
Ircana. Perfido, se il destino volesse i lacci miei,
A ognun fuor che a te solo, crudel, mi venderei.
Tu, preso da vendetta il barbaro consiglio.
Tu mi svelasti a donna, facesti il mio periglio.
(a Zaguro
Signor, grazie vi rendo di vostra alma bontà;
Padre mi foste in lacci, tal siate in libertà.
Ma di tal don qual frutto, se peno ancor così?
(a Demetrio
Tamas. Parla, Alì. Che ci rechi?
Ircana.   Quali speranze, Alì?
Alì. Or che parlar mi è dato, sciolgo per voi gli accenti,
Nunzio sono agli afflitti di fortunati eventi,
Tamas non ha più sposa. La strinse altro desio
A uno sposo novello.
Tamas.   E chi sarà?
Alì.   Son io.
Tamas. Oh amico!
Ircana.   Oh caro AD!
Tamas.   Deh tu mi narra il modo.
Alì. Fatima non discese involontaria al nodo.
Scossa dall’abbandono da te sofferto ingrato,
Ti ha per virtute almeno dal di lei cor scacciato.
E nel timor del duro ripudio vergognoso,
Parvele sua ventura, ch’io m’offerissi in sposo.
Quel che vincer tentai a stento e con sudore,
Fu dall’ira infiammato di Machmut il core;
Ma cesse alla lusinga di riacquistare il figlio,
Cesse di vero amico alle voci, al consiglio.