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Se non vogliamo fare torto al pubblico veneziano, ci convien confessare che il dramma in questi cinque atti resta soffocato dal romanzo. Ricordiamo che nella Sposa Persiana l’autore si era proposto di descrivere l’amore, la passione violenta: i Veneziani non si lasciarono sedurre soltanto dalle vesti orientali di Ircana, bensì da’ suoi accenti impetuosi che facevano impallidire Tamas e la povera Fatima. Qui tutto è spanto: non troviamo che dei mercanti armeni, un eunuco nero, delle donne che fumano tranquillamente la pipa: la gelosia di Zulmira e il travestimento di Ircana non bastano a creare una vera azione teatrale. Tamas arriva troppo tardi, alla fine del secondo atto e nel quinto, per richiamare al dramma principale gli animi distratti degli spettatori. Ben altro aveva promesso al pubblico il titolo semplice ma seducente di Ircana, che diventò più tardi nella stampa Ircana in Julfa, dopo la recita della terza parte della trilogia orientale (Ircana in Ispaan).

Pochi anni fa il vecchio professore Angelo De Gubernatis, in un suo volume su Carlo Goldoni (Firenze, 1911, pp. 228-235), ci diede un ampio riassunto della commedia; e notò certi spunti comici qua e là, anzi fantasticò che sotto il nero viso dell’eunuco Bulganzar “nelle prime rappresentazioni, si nascondesse Arlecchino, perchè il suo gesto, le sue mosse, il suo linguaggio, e la sua allusione alle bastonate alle quali è avvezzo, risentono di questa maschera” . Non già che tali burlette, che sì fatti intermezzi burleschi gli piacessero molto; nè si sarebbe meravigliato se i signori Granelleschi avessero “lanciato qualche frecciata mordente all’autore che, con tanta disinvoltura, mescolava la farsa con la tragedia”. Anche l’innocente invocazione di Ircana al pubblico, nell’ultima scena, parve al De Gubernatis condannabile: “Questo aggeggio finale era un rimasuglio tradizionale della vecchia commedia dell’arte”.

Contro l’opinione dell’antico pubblico veneziano, la signorina Maria Ortiz, nel suo importante saggio sulle Commedie esotiche del Goldoni (Napoli, 1905), giudicò che la Ircana in Julfa, sbandito il personaggio di Fatima, acquistasse “una maggiore libertà di movimento, e una certa naturalezza agile che fa piacevole contrasto colla goffaggine pesante delle altre due, e specialmente della prima” (pag. 28).”...Questa seconda commedia è per molti rispetti superiore alle sorelle. È meno lagrimosa, più agile, più schiettamente comica delle altre " (pag. 35): perfino senza “enfasi”. Del carattere di Ircana osserva che, lontana dalla casa di Tamas, la sua “violenza si cambia in tristezza, e la sua figura ci appare trafusa di una maggior dolcezza.... Ella non è più quella di prima, e della sua libertà non sa più che fame” (p. 29). Scopre in questo personaggio eroico “un lampo di tenerezza”, e se ne invaghisce un po’ troppo. “Se questo lato” osa dire “più mitemente femminile del suo carattere non si manifesta molto, è perchè si tratta di un momento di lotta eccezionale; perchè incontrando tanti ostacoli, ella sente la necessità d’indurire il suo animo alla lotta, e smettere ogni mollezza di sentimento. Ma quando per caso la lotta si allontani, quando per un momento solo possa esser sicura dell’amore indiviso di Tamas, ella smette la fierezza, rallenta più dolcemente la tensione angosciosa dell’animo, e la sua bocca si schiude con un incanto imprevisto a parole più tenere” (p. 30). Questa donna romanzesca, che non balza su dalla vita, ma che si confonde fra le creature senza nome e senza sesso dell’abate Chiari, è riuscita dunque a sedurre anche la signorina