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564 ATTO QUARTO

SCENA XI.

Don Alonso, poi Delmira.

D. Alonso. Eppur cotanto sdegno parmi equivoco in lei.

Conosco mia germana, fondati ho i dubbi miei.
Lo so che a due passioni soggetto è il di lei core;
L’ambizion la trasporta, e la trasporta amore;
E parmi di vedere pugnar nel di lei petto
Col più tenace orgoglio il più cocente affetto.
Delmira. Signor, nuovo dovere a voi mi porta innante,
Carca di nuovi doni, carca di grazie tante.
Quei miseri infelici per voi vivono ancora.
Grazie per me vi rendono; meco ciascun vi onora.
E pregano quel Nume che da per tutto impera,
Che vi conceda al mondo felicitade intera.
D. Alonso. Piacemi il lieto augurio che vien dal labbro vostro,
Ma tal felicitade non vi è nel secol nostro.
Per l’onor, per la gloria sudare a noi conviene,
Ed assaggiare in vita misto col male il bene.
Quello che mi potrebbe render contento al mondo,
Di voi sarebbe un sguardo all’amor mio secondo.
Darei per possedervi, darei la vita istessa;
Ma non è tal fortuna all’amor mio concessa.
Delmira. Deh non mi tormentate. Conosco il mio dovere.
Confesserò più ancora: vi amerei con piacere.
Ma l’onestade insegna, ma il mio dover richiede,
Ch’io serbi ad ogni costo al sposo mio la fede.
Nell’ordin di natura è un perfido delitto
Le barbare afflizioni accrescere all’afflitto.
Quest’unica speranza all’infelice or resta,
Nè vo’ fra tanti mali privarlo anche di questa.
D. Alonso. No, Delmira, non sdegno che altrui siate amorosa,
Ma con me non dovreste essere men pietosa.
Per mio conforto almeno da voi sapere aspetto,
Se in libertà trovandovi, mi niegherete affetto.