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sua versione del Corso di Letteratura drammatica del Sig. A.W. Schlegel (Milano, 1817, t. II, pag. 325), osa affermare che "nella Sposa Persiana, nell’Ircana in Ispaan, nella Bella selvaggia, nella Pamela, egli commuove e fa piangere”. Ma, poco dopo, il Menegnezzi afferma, d’accordo col Carrer, che nelle commedie orientali e storiche del Goldoni, compresa la B. s., i costumi delle varie nazioni sono rappresentati “così superficialmente” che quei popoli “appena si riconoscono per quelli ch’esser dovrebbono” e vi si incontrano troppi “accidenti” (Della vita e delle opere di C. Goldoni, Milano, 1827, pag. 131).

D’altro avviso era Francesco Salfi:”... E quando pure” il Goldoni, scriveva il professore napoletano, “tradisca il vero in questa parte, e perda di vista i colori locali, egli non dimentica mai il tipo del carattere e della passione che si propone di sviluppare. Quindi appare sì vero e sì naturale in tutto il resto, che gli si perdonano volentieri le indicate imperfezioni; e non cessano perciò di piacere La Sposa persiana, l’Ircana in Ispaan, La Bella selvaggia, La Pamela ecc.” (Saggio critico della commedia italiana, Milano, 1829, pag. 50). Così Carlo Ritorni, confondendo insieme la Scozzese e la Peruviana, la Bella selvaggia e la Pamela, riusciva a scoprire nella commedia sentimentale del Goldoni non solo”l’imitazione della natura”, ma”la morbidezza e amenità dello stile” (Annali del Teatro della Città di Reggio, Bologna, 1826, pag. 41). Oggi non vi scopriamo che la noia. Nè solo noioso, ma ridicolo nella sua ingenuità sembra in questa commedia il Goldoni a Riccardo Schmidbauer (Das Komische bei G., Muncher, 1906, pag. 152). Si veda pure Chatfield-Taylor nel suo bel volume sul commediografo veneziano, tradotto or ora in italiano (Goldoni, Bari, 1927, pp. 193 e 245).

Eppure anche di recente Deimira trovò un’ammiratrice nella signorina Filomena Adamo, la quale vede in lei una “creatura purissima, che ci riempie l’animo di dolcezza ineffabile... Deimira è la donna quale l’ha fatta natura; ecco appunto la creatura del Goldoni, senza le ipocrisie, le finzioni ecc.” (La donna del Settecento e la donna del G., Girgenti, 1921, pp. 69-63). Ebbene, anche noi possiamo sinceramente applaudire al Goldoni che, molti anni dopo la Pamela, nel ’58, fa dire in faccia a qualche nobiluccio borioso e ignorante:”Fra queste selve oscure dove siam tutti eguali, — Il merto non consiste nel sangue e nei natali ecc.” (atto III, sc. 7; vedasi anche a. I, sc. 5 e II, sc. 3 e III, sc. 5); e nella Venezia del Settecento esalta dal palcoscenico le più belle virtù dell’animo: ma pur troppo non ci riesce di trovare nei versi del buon Veneziano nessun”possente impeto” nè alcuna”luce" che ci mostri la donna "innalzata ai cieli dell’Olimpo". Solo chi vorrà studiare di nuovo e più seriamente, dopo il Falchi, l’efficacia sociale del teatro goldoniano, non dimenticherà l’infelice Delmira.

Probabilmente fin dal 1759, quando presentò all’ufficio de’ Riformatori il volume settimo del suo Nuovo Teatro Comico, perchè ne fosse approvata la stampa, il Goldoni aveva scritto la lettera di dedica della Bella selvaggia alla giovane nobildonna Caterina Dolfin Tiepolo. Nata a Venezia l’8 maggio 1736 da Gio. Anti Dolfin (di S. Margherita in campo, n. 19 maggio 1710) e da Donada Salomon (sposa nel 1732, m. 1785), era allora nel fiore dell’età, dello spirito e della sua bionda bellezza. Nella villa paterna lungo il Sile