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la danza d’una “devadasis„ 117

che sbigottisce in una sacerdotessa di tal fatta. Io, che non so l’industani, le accenno alla gota sinistra che mi sembra tumefatta. Essa porta l’indice e il pollice alle labbra, ne toglie un bolo vermiglio, che mi porge affabilmente.

— Betel!

Poichè rifiuto la droga pessima, essa riporta il bolo alla bocca, passandolo dall’una all’altra guancia, battendovi sopra le due mani, per gioco, con un malvezzo di bimba screanzata.

— Le dica che deploro di non aver capito una sillaba dei suoi poemi. Le domandi in quanti anni potrei sapere il sanscrito, il pali, il giaïna....

La donna ascolta il dottore, poi mi fissa, ridendo, alza le dieci dita ben tese. Dieci anni! Ohimè, no! Non vale la pena improba. E penso che superata pur anche una tale fatica, padrone degli idiomi difficili, resterei estraneo all’essenza prima dei testi sacri. Mi divide da essi una barriera più insuperabile del linguaggio: ed è lo spirito diverso, la fede opposta. L’occidentale, che ritorna in India, non riconosce più la sua cuna.