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162 l'impero dei gran mogol

diccie ed occhialute di studiosi russi, tedeschi, inglesi che osservano con fiero cipiglio, come sacerdoti indignati, la nostra gaiezza profanatrice. Siamo alla Porta d’Aladino, un’immensa porta superstite che dà un’idea della moschea smisurata che non è più. E la mole, di tale grandezza e di tale purezza architettonica che basterebbe a creare un modello perfetto di stile indo-moresco, appare lavorata, a chi s’avvicina, come uno stipo cesellato da un orafo: tutto il Corano con tutti i motivi più delicati dell’arte islamitica dei secoli d’oro adorna la grazia ogivale che s’innalza a più di trenta metri. Il vano è riempito dal più azzurro cielo dell’India, e il nostro elefante, immobile nella zona in ombra, quasi minuscolo sotto l’immensa ruina, completa quella bellezza armoniosa. Sente quest’armonia l’inglese eruditissimo — e scortese — che lavora in una baracca prossima e toglie misure e dirige tre scribi indigeni che disegnano e calcolano per non so che restauri governativi? Ho più fiducia nell’entusiasmo e nel buon gusto di queste meretrici di Francia; la più loquace delle due ha immagini adorabili.