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166 l'impero dei gran mogol

che colpisce di lungi per l’altezza vertiginosa, dappresso per la squisita fattura.

Sembra un fascio di palmizi interminabili, legati, stretti a cinque altezze digradanti: così che l’insieme del fusto snello è tutto pieghettato come una gonna di seta; seta lucida e fine sembra la pietra rossa‐salmone, intarsiata d’ornati di marmo bianco. Lavori di mole e di pazienza inconcepibili ai nostri giorni, possibili nel tempo andato, quando un popolo intero era stromento cieco e concorde del capriccio d’un despota. Forse avevano un po’ tutti l’anima di Luigi di Baviera, questi sultani leggendari che profondevano tesori per concretare i loro sogni in moli di marmo e d’alabastro. Per gli occhi di una bella distruggevano la loro città, costruivano una città nuova, come il Maharajah Suvan-Ge-Sigg II che nel 1628 abbandonò Amber, l’antica capitale del suo regno, e fondò Giaipur, la città fantastica tutta color di rosa, eretta in poco più di tre anni! Costruivano palazzi, templi, giardini, e li abbandonavano talvolta, prima che fossero compiuti, già sazi del sogno che il popolo tardava a concretare in pietra.