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204 giaipur: città della favola

la criniera e dalla coda ondulata e prolissa, montati da cavalieri fantastici che si direbbero eroi cinematografici o comparse d’operetta se non si vedesse, se non si sentisse che sono veri: veri nonostante la scimitarra gemmata e lo scudo all’arcione, il casco — turbante adorno di penne svolazzanti, la barba imbiondita al hennè, i sopraccigli, le ciglia annerite con l’inchiostro di kool. Ma per chi, ma per che cosa questo abbigliamento scenico da principi di Mille e una notte? Forse non tanto per piacere alle loro donne mansuete, quanto per servire degnamente la Dea Illusione, la Dea Poesia, la Maja-Devi della teogonia indiana: quella che pone tra noi e le cose quali sono il velo delle cose quali devono apparire. Certo io penso con un sogghigno al nostro sommario vestito occidentale: un unito nero o bigio, un solino rigido, un cappello a cencio o a staio: non altro è concesso, non una tinta vivace, una penna, un velluto per illeggiadrire la nostra già sempre più scarsa avvenenza mascolina. Tutti hanno qui una eleganza principesca: principi e bovari; ma non per l’abbigliamento soltanto. Tutti