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260 il vivajo del buon dio

vorano oggi per le case degli usurpatori biondi. S’incontrano per le strade di campagna, a coppie, non accompagnati da nessun cornac, percorrono da soli, a piccolo trotto, dieci, quindici chilometri di strada ben conosciuta, trasportando sul dorso o tra le zanne e la proboscide tronchi colossali, colonne, cubi di granito; li depongono a destinazione, rifanno di corsa il lungo cammino per ricevere un altro carico. Il loro passo s’annunzia di lontano con un rombo sordo; se incontrano un europeo retrocedono, scendono ai lati della strada, lasciando libero il passo; e protendono — se l’hanno libera — la proboscide, con gesto di preghiera. Se ricevono una monetina — un’anna, mezz’anna — sostano alla prima bottega campestre, la depongono per avere in cambio dall’indù una focaccia di riso muffita o un casco di banane fracide. La loro intelligenza è inaudita, imbarazzante: nell’occhio microscopico, quasi perduto nella mole della testa, s’alterna un bagliore indefinibile di scaltrezza derisoria e di bontà indulgente. Sono certo che comprendono ciò che dico, che intuiscono ciò che penso; e non so