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canto undecimo 261

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     Turpin Marfisa fa per le piú colte
citta della provincia ancor che passi,
e va notando osservazion raccolte,
e costumi e cervei, difetti e passi;
dice che in queste, alle apparenze molte,
alle giostre, a’ teatri, a" giuochi, a’ spassi,
alle carrozze, a’ servitori, all’oro,
si potea giudicar molto tesoro.
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     Ma nel fermarsi alcuni giorni poi,
l’antico detto si verificava:
«tutt’òr non è quel che splende tra noi»,
sicché Marfisa assai farneticava.
Vede alcun gentiluom, che, agli occhi suoi,
a’ panni molto agiato non sembrava;
non tenea cocchio o pompa, e pur in cera
del cor dipinta avea la primavera.
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     Dall’altra parte molti risplendenti
scorrer vedea ne’ cocchi lor famosi,
con certe risa sforzate fra i denti,
con certi sguardi cupi e sospettosi,
che dipingeano gli animi scontenti
e de* pensier molesti e tenebrosi;
donde Marfisa facea strani gesti,
veggendo i pover lieti e i ricchi mesti.
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     L’alterigia, il puntiglio, il fumo, il fasto
ben tosto discopriva quest’arcano.
Gli appariscenti appiccavan contrasto
co’ men splendenti per la dritta mano,
e per i posti a una festa, ad un pasto,
e’ metteano sozzopra il monte e il piano:
volean risarcimenti e vergognose
cercan vendette per le vie nascose.