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parte prima - capitolo vii 65


Il provveditor generale si divertiva spesso sull’ore fresche a correre a cavallo, quando quattro quando sei miglia fuori della cittá, e una truppa d’uffiziali gli facevano codazzo cavalcando dietro all’orme sue. Tra questi correva anch’io.

Cavalcando per tal modo un giorno, venne brama all’E. S. di sentire nuovamente il mio sonetto in sua lode, ch’era divenuto famoso, come spesso si vedono divenir circolari in copia e famose delle inezie per le sole circostanze che le avvalorano.

Il cavaliere mi chiamò altamente; spronai il cavallo per appressarmegli, ed egli senza punto rallentare il gualoppo, mi comandò di recitargli quel sonetto. Non credo che sia stato recitato un sonetto in una maniera simile a quella ch’io dovei prendere, dalla creazione del mondo a quel punto.

Gualoppando dietro a quel signore, sparando quasi il polmone per farmi udire, con tutti i trilli, le aspirazioni, le cadenze, i semituoni, le smozzicature e le dissonanze che può cagionare lo scuotimento niente accademico d’un cavallo in corso, recitai quel sonetto che parve di singulti, e ringraziai il Cielo, cacciato ch’ebbi fuori il quattordicesimo verso.

Parvemi d’intendere, conoscendo molto bene quel cavaliere, sostenuto e terribile nelle cose importanti, ma bizzarro in alcuni momenti dello spassarsi, ch’egli abbia voluto per quella via stimolare il solletico alle sue risa. Credo di non aver preso errore, e solo può essersi egli ingannato, se ebbe speranza di ridere piú di me sopra a quel caso.

Dubitai tuttavia d’essere stato oggetto di riso alla comitiva cavalcatrice. Dubbio folle. Que’ signori, cortigiani dabbene, mi giudicarono unanimi prediletto, distinto ed onorato pubblicamente dall’E. S. ed ebbero invidia d’una scena arlecchinesca ch’io aveva sostenuta, e ch’essi non avevano avuta la fortuna di rappresentare in mio luogo.