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CAPITOLO XLVI

Mio interno.

Non fui avaro perch’ebbi sempre a schifo il peccato dell’avarizia, e non fui prodigo forse soltanto perché non fui ricco. Se fossi stato opulente non posso render conto delle idee che avrebbe potuto risvegliare e degli effetti che avrebbe potuto cagionare la ricchezza sulla mia umanitá, stolida al pari di quella di tutti gli uomini e di tutte le femmine. Averei potuto trarre qualche utilitá pecuniaria dal diluvio de’ scritti miei, ma gli ho donati ognora a’ comici, a’ librai o a coloro che facendoli uscire dalle stampe al pubblico hanno sperato di far quel guadagno ch’io sempre ricusai di proccurare per me.

Se qualcheduno fosse eretico su questo punto, lo lascerei nella sua miscredenza senza affaticarmi a convincerlo.

Alcuni a’ quali era noto ch’io non era ricco mi rimproverarono di quest’azione. Giudicavano per avventura ch’ella fosse una liberalitá vanagloriosa, inopportuna e sciocca.

Il mio interno era un giudice avverso al giudizio de’ rimproveratori, e rendo una ragione che forse è un torto. I miei scritti, sempre liberi, sempre franchi, sempre pungenti, sempre satirici sul costume universale, benché morali ed espressi in un modo faceto, non prezzolati, avevano il vantaggio d’un certo decoro che gli faceva soffrire, godere e applaudire nella lor veritá. Prezzolati, sarebbero facilmente decaduti da un tal decoroso vantaggio e degenerati, nelle opinioni e sulle lingue de’ miei contrari, in una insoffribile mercenaria maldicenza che m’avrebbe forse fatto odioso universalmente.

Oltre a ciò non v’è il peggiore avvilimento in Italia per i scrittori di quello dello scrivere prezzolato per i nostri librai e lo scrivere prezzolati per i teatri de’ nostri miserabili comici. I primi ostentano di usare una caritá agli scrittori a far stampare