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CAPITOLO VI

Piato fastidioso che ha interrotto per qualche momento il mio costume

di ridere sulle umane vicende.

La nostra famiglia è posseditrice d’un podere di campi con delle fabbriche, suburbani alla cittá di Bergamo.

Per la voce di tutti i bergamaschi, que’ beni sono terre di promissione e, considerati nella loro quantitá, sono circa novanta campi, ragguagliati sulla misura padovana.

Quel podere, per esser lontano, non mai veduto dall’avo e dal padre nostro né da noi fratelli, era sino ab antiquo affittato a una famiglia Fumegalli di Bergamo, assai agiata, con delle rinnovazioni d’affittanza di alcuni anni in alcuni anni e per un fitto troppo discreto dal canto della nostra famiglia.

Avvenute le divisioni della fraterna dopo la morte del padre nostro, essendo io l’eletto concordemente al carico di supplire a’ pesanti aggravi annuali coll’assegnamento d’un’antiparte di alcune affittanze, entrava in quell’assegnamento anche cotesta affittanza di Bergamo.

Esibivano in quel tempo i Fumegalli, allora pontuali fittaiuoli, un accrescimento di circa settanta ducati al solito fitto, purché facessimo loro una nuova fittanza lunghissima, con la facoltá di poter fare de’ miglioramenti ne’ beni e nelle fabbriche, de’ quali miglioramenti, se fossero rilevati al termine dell’affittanza, dovessero essere risarciti.

Riflettendo ch’era bene il fissare una somma certa e indiminuta alla scadenza per poter supplire agli aggravi, somma che ogn’anno giugneva scarseggiata dalle spese, vere o false che fossero, di ristauri alle fabbriche, non che dalla differenza del valore delle monete di Bergamo a Venezia, e riflettendo all’esibito accrescimento d’affitto, tutti noi fratelli unanimi discendemmo alla stipulazione di quella fittanza, col patto chiaro che