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SCENA QUARTA

Titiro, Montano, Dameta.

Titiro. Vagliami il ver, Montano: i’ so che parlo

a chi di me piú intende. Oscuri sempre
sono assai piú gli oracoli di quello
ch’altri si crede, e le parole loro
sono come il coltei, che, se tu ’l prendi
in quella parte ove per uso umano
la man s’adatta, a chi l’adopra è buono;
ma chi ’l prende ove fere, è spesso morte.
Ch’Amarillide mia, come argomenti,
sia per alto destin dal cielo eletta
a la salute universal d’Arcadia,
chi piú deve bramarlo e caro averlo
di me, che le son padre? Ma, s’i’miro
a quel che n’ha l’oracolo predetto,
mal si confanno a la speranza i segni.
S’unir li deve Amor, come fia questo,
se fugge l’un? com’esser pòn gli stami
d’amoroso ritegno odio e disprezzo?
Mal si contrasta quel ch’ordina il cielo;
e, se pur si contrasta, è chiaro segno
che non l’ordina il cielo, a cui, se pure
piacesse ch’Amarillide consorte
fosse di Silvio tuo, piú tosto amante
lui fatto avria che cacciator di fère.
Montano. Non vedi tu com’ è fanciullo? ancora
non ha fornito il diciottesim’anno.
Ben sentirá col tempo anch’egli amore.
Titiro. E ’l può sentir di fèra e non di ninfa?
Montano. A giovinetto cor piú si con face.
Titiro. E non amor, eh’è naturale affetto?
G. B. Guarito.