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soltanto a’ 6 di febbraio del 1839 fosse nominato maestro di scultura nell’Accademia di Firenze. È certo ch’egli dovette quel posto alla sua fama; la quale non vinse mai l’invidia e i pregiudizi della scuola, ma ne impose finalmente a quelli che reggevano il nostro istituto di Belle Arti. Il Bartolini aveva colle sue sculture mostrato, che non si dovevano disprezzare le opere antiche, ma che per raggiungerne la bellezza e la verità bisognava risalire alle fonti donde avevano attinto gli antichi maestri: non imitazione gretta dell’opera umana, ma studio scelto della natura, e intelligenza del vero senza eccedere nella realità. «Questo saggio contegno (dice il Delaborde), tra la servile riproduzione del vero e una interpretazione troppo libera, fu appunto quello cui dettesi la taccia di cieco radicalismo. Si confuse, o si finse di confondere, questi tentativi per rinnovare l’arte italiana, con quelli che altra volta non erano riusciti che a farla tutta materia. Se si ha a credere ai Caracceschi di quel tempo, il Bartolini era un secondo Amerighi; uno di quegli artisti di corta veduta, i quali non domandano alla figura umana di pensare, ma di essere: e tutto nasceva, perchè egli non considerava la natura secondo il metodo prescritto, e ricusava di armarsi ogni poco delle seste per proporzionare le forme de’ suoi modelli a certe forme riputate classiche»1.

§ 3. Il Bartolini entrò dunque da vincitore nel campo accademico, nè fu pietoso co’ vinti. Dopo pochi mesi, e appunto nel 1840, dettava in scuola questa lezione: «Tutta la natura è bella, relativa al soggetto da trattarsi; e chi sa copiare, tutto saprà fare. Bartolini, statuario». E dato per soggetto di composizione Esopo che medita le sue favole, poneva per modello ai suoi scolari un gobbo. «Un gobbo (esclama il Delaborde) dentro quelle mura av-

  1. Delaborde, articolo nella Revue des deux mondes; livraison 15 septembre 1855.