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di cotesta anima travagliata, mi verrebbero meno l’olio e il lucignolo; basti dire ch’essi giravano e rigiravano dentro questo cerchio:

«Che fai? che pensi? ella mulinava fra se; egli è venuto il tempo di recarti in mano la tua anima e scaraventarla come un sasso contro il Creatore, il quale ci plasmò così perchè ci sentissimo morire? No; — la lapide mortuaria è lo scudo dei poltroni. Io non getterò le armi sul campo, lo vo’ serbare quanto più posso di fiato per poter dire in faccia all’eterno tiranno: — Tiranno, e modello di quanti furono e saranno tiranni, per requie tua e pace dell’universo disperdi la tua divinità in brani negli orrori dell’Erebo e della notte: fa di disfarti: soffia sulla tua luce, e spegnila, poichè tu non la sapesti accendere tranne per illuminare delitti e sventure. Pari nella desolazione alla Niobe antica, a me non fia dato sottrarre veruno innocente al tuo saettare maligno: non importa: trafiggi! Le ferite che farai attesteranno la tua immanità: le margini di quelle come altrettante bocche aperte ti urleranno una osanna di maledizione. Io morderò il granito della macina sotto la quale mi stritoli; io mi industrierò che una scheggia delle mie ossa infrante ti entri negli occhi e ti faccia lacrimare. Questo artefice infinito del dolore provi anche egli una volta che sia dolore. Dunque rimango, e rimanendo, che farò io di cotesta povera creatura di cui