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Il quarto Sacramento 237

mi parve di scorgere qualche restrizione e qualche bugia. La confessione era il suo tema prediletto e mi narrava le marachelle che aveva sentito dalle donne, i casi di coscienza che aveva dovuto sciogliere, le sue soluzioni e una filza di aneddoti pornografici che lo facevano sussultare dalle risa sopra la scranna, mentre io senza volere, ogni volta più l’ascoltavo volentieri.

Una sera aveva bevuto più del solito e cominciava a perder l’erre. Bussarono alla porta del giardino e il padre dalla sua sedia chiese ad alta voce: — Chi è? — Un fraticello rispose: — La contessa Y* che si vuol confessare. Il padre brontolò sottovoce alcuni spropositi grossi, poi gridò che la introducessero in chiesa a far l’esame di coscienza, che tra poco sarebbe venuto.

Tornò a spropositare. Erano ore quelle da venire a romper le tasche a un povero servo di Dio? Benedette donne, che fanno i peccatacci e seccano la gente a tutte l’ore per farseli perdonare! E via di questo passo. Io ebbi un’idea luminosa e gli dissi: — Vuoi che vada io? — Prima credette che scherzassi, ma dopo che gli ebbi mesciuto un bicchiere di Capri traditore, cominciò a ridere della burla e finì col consentirmelo, facendomi fare i più terribili giuramenti di segreto. Gli sturai un’altra bottiglia e uscii.

In parola d’onore, ero meno commosso a Milazzo quando sentii a fischiare le palle la prima volta. Si ha un bell’essere capitano di cavalleria, ma l’idea di confessare una signora, che sapevo giovane e bella, mi faceva un certo effetto.